Politically (in)correct – Ripresa produttiva e crisi aziendali

Bollettino ADAPT 13 settembre 2021, n. 31

 

Il flash congiunturale di settembre del Centro Studi della Confindustria (CSC) conferma il trend sostanzialmente positivo (sia pure con qualche elemento di preoccupazione) della ripresa, come attestato nella seguente scheda.

 

Scheda
  • Prosegue spedito il recupero del PIL italiano. Dopo il forte rimbalzo del 2° trimestre (+2,7%), nel 3° trimestre i principali indicatori stanno tenendo, nonostante gli effetti della scarsità di alcune materie prime e semilavorati e la ripresa dei contagi. Rimane molta incertezza per il 4° trimestre, legata al proseguimento dell’epidemia. Il 2021, comunque, potrebbe chiudersi con un recupero vicino al +6,0%.
  • Consumi in forte risalita. I consumi privati, come atteso, sono ripartiti nel 2° trimestre (+12 miliardi, pari a +5,0%), trascinati dalla spesa in servizi (viaggi e spese fuori casa). Le attese per il 3° trimestre sono di ulteriore risalita: resta da spendere circa metà dell’extra-risparmio accumulato dalle famiglie durante il lockdown, che in primavera il Centro Studi Confindustria aveva stimato in 26 miliardi. In agosto, gli ordini interni dei produttori di beni di consumo sono quasi tornati ai valori pre-crisi e la fiducia delle famiglie ha tenuto. Gli investimenti, intanto, continuano la dinamica robusta, dopo un +2,4% in primavera che li ha portati molto oltre i valori pre-crisi, con ordini su un trend di aumento.
  • L’industria cede il passo ai servizi. L’industria, principale motore finora, sta gradualmente passando il testimone ai servizi nel trainare la crescita. Gli indici PMI mostrano una frenata nell’industria negli ultimi tre mesi (60,9 in agosto da 62,3 a maggio) e una accelerazione nei servizi (58,0 da 53,1). Ciò avviene, in parte, perché inizia a pesare anche in Italia la scarsità di alcuni input produttivi, che già preoccupava da alcuni mesi. La produzione industriale è cresciuta nel 2° trimestre un po’ meno del 1° (+1,2% vs +1,5%) e il 3° trimestre è partito a ritmo minore: in luglio si è avuto un +0,8% e la variazione acquisita per il trimestre è +0,9%; in agosto poi le attese su produzione e ordini sono calate. E in parte, perché non si sono avuti altri blocchi per i servizi: nel turismo la ripresa estiva c’è stata, anche se siamo ancora molto sotto i valori pre-Covid e la fiducia delle imprese di servizi ha perso pochissimo in agosto. La risalita del settore dovrebbe proseguire nel 3° trimestre, dati i giudizi sugli affari in aumento, ma con qualche ombra per il 4° trimestre, visto il marcato calo in agosto delle attese sugli ordini.

Sono presenti elementi di novità importanti come la ripartenza dei consumi privati che hanno rimesso in moto i servizi e che denotano la presenza di un clima di fiducia delle famiglie italiane ormai “desaparecido” da anni. Emergono però segnali da seguire con attenzione (anche perché sono eccessivamente trascurati) come le difficoltà a reperire materie prime, semilavorati, input intermedi, servizi alle imprese, con una lievitazione dei costi che incide sulla inflazione. Poi ovviamente incombe la <variabile indipendente> della pandemia che potrebbe creare problemi alle riaperture e al loro ulteriore allargamento: una misura che si è rivelata fondamentale per la ripresa a livelli superiori al previsto, persino dagli osservatori internazionali. Va da sé che le polemiche terrapiattiste sul green pass non aiutano certo a migliorare la situazione.

 

E sul fronte del lavoro? Ci sarà pure qualcuno che si chiede dove sono finite le centinaia di migliaia (se non addirittura i milioni) di lavoratori cacciati dalle aziende, una volta avviato il superamento del divieto di licenziare per motivi economici? Sarebbe opportuno avere un monitoraggio più completo di quanto accade in giro per la Penisola, perché non è credibile (anche se ogni posto di lavoro è importante) la rappresentazione – mediatico-sindacale – di una tremenda crisi sociale, limitata ad un gruppo di aziende (in prevalenza multinazionali) che hanno deciso di chiudere. Se si fa il conto – senza cinismo e con grande rispetto – dei posti di lavoro in pericolo, nei casi citati, non si arriva – con l’aggiunta della Riello abruzzese che non c’entra nulla con l’Aermec veneta – a 1,7mila dipendenti. Eppure le proposte per la riforma degli ammortizzatori sociali e le norme in tema di delocalizzazione sembrano pensate per “salvare” queste imprese, divenute all’improvviso strategiche. Chi scrive, nella sua lunga esperienza di sindacalista, ha assistito ad uno sciopero generale in Lombardia per salvare una fabbrica di panettoni che, poi, finì assorbita dalle Partecipazioni statali. È in grado, allora, di apprezzare quanto sia fondamentale per un Paese la produzione di lavatrici e quindi il recupero della Whirlpool di Napoli, peraltro già chiusa ma non rassegnata da tempo. Ma qualcuno si è mai chiesto per quali ragioni – dopo un balletto disdicevole con il governo e i sindacati – è stata decisa la chiusura là “dove si puote”? Se ne è mai parlato in un talk show? No, ma è stato un errore perché si sarebbe capito dove stanno i punti deboli dell’industria italiana che, col tempo, rischiamo di determinare situazioni indifendibili. La Whirlpool ha presentato al governo, alle altre istituzioni e ai sindacati un’accurata relazione a cui forse nessuno ha prestato l’interesse dovuto perché era molto più facile tirare in ballo il profitto e la cinica rapacità delle multinazionali.

 

La lettera del 15 luglio scorso con la quale veniva aperta la procedura di licenziamento collettivo (fino ad allora vietato) per 375 dipendenti non lasciava vie di scampo. Lo stabilimento era chiuso dal novembre 2020; il tipo di prodotto che vi era lavorato veniva praticamente dismesso; nello stabilimento in prossimità di Caserta si producevano altre tipologie. Infine, la mazzata. Si licenziava – senza neppure chiedere le 13 settimane di cig generosamente offerte dal governo – solo a Napoli perché quel personale non sarebbe stato in grado di impadronirsi di altre tecnologie senza essere sottoposto a progetti di formazione onerosi, di lunga durata e con esiti non garantiti. E che l’azienda ritiene di non fare. Chiunque sarebbe legittimato a chiedere: “scusi, ma a chi toccava di organizzare la formazione? Perché non avete provveduto per tempo?”. L’azienda potrebbe rispondere – e lo ha fatto – chiamando in causa un inadeguato livello di scolarizzazione. Ma la polemica potrebbe continuare all’infinito. In questa vicenda, però, vi è un messaggio anche per i sindacati. Quel diritto alla formazione conquistato nel rinnovo contrattuale (ora accusato di eccessiva moderazione) del 2016 rappresenta, se esercitato come Dio comanda, la più sicura garanzia di mantenere il posto di lavoro. Nelle comunicazioni programmatiche del 17 febbraio Mario Draghi era stato chiaro: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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