Politically (in)correct – Reddito di cittadinanza: di male in peggio

Bollettino ADAPT 25 febbraio 2019, n. 8

 

Arriva in Aula al Senato il disegno di legge di conversione (AS 1018) del dl n.4/2019 recante la summa identitaria del pensiero del governo e della maggioranza giallo-verde.  La Commissione Lavoro ha apportato, al testo originario, alcune modifiche che rendono ancor più visibile “di che lacrime grondi e di che sangue”  la disciplina del reddito di cittadinanza (RdC), la misura che dovrebbe azzerare la povertà nel nostro Paese (e che, almeno per ora, ha determinato soltanto la nomina/premio, a commissario dell’Inps, del prof. Pasquale Tridico dalle cui meningi è uscito il provvedimento). Ce n’è per tutti i gusti: per chi ha ancora la forza morale di  scandalizzarsi delle discriminazioni nei confronti degli stranieri; per chi riesce ad individuare gli aspetti comici persino tra le righe di una norma di legge; per chi, infine, può trovare conferma del fallimento del nuovo istituto, almeno per quanto riguarda il progetto di promuovere un nuovo scenario di politiche attive del lavoro.  

 

Cominciamo con le modifiche che, ad avviso di chi scrive, sono dettate da vera e propria ostilità nei confronti degli stranieri e delle loro famiglie. La platea a cui il RdC si rivolge comprende – in presenza dei requisiti personali ed economici richiesti – i cittadini italiani e quelli di paesi della UE, i relativi familiari con diritto di soggiorno e, per quanto riguarda gli extracomunitari (gli stranieri veri e propri), i titolari di permesso di soggiorno di lunga durata. È richiesta, inoltre, la residenza in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi.  Quest’ultima condizione ha una storia. Quando gli strateghi del “cambiamento” si accorsero di non poter riconoscere il RdC solo ai cittadini italiani, optarono per un’operazione indiretta, come quella di condizionarne l’erogazione ad un lungo periodo di residenza nel nostro Paese. Ovviamente la norma capestro, per le medesime ragioni evocate in precedenza, si applica anche ai cittadini italiani. Così, se un nostro concittadino residente in Venezuela decidesse di rientrare in patria, povero in canna, non potrebbe aspirare al RdC se non tra dieci anni.

 

E’ a questo punto che un deputato leghista si è ricordato di una “prodezza” dell’amministrazione comunale di Lodi, la quale, nell’autunno scorso, aveva varato un regolamento (definito da Matteo Salvini “antifurbetti”) in forza del quale, in aggiunta all’Isee, i genitori stranieri – per consentire che i loro figli godessero  delle agevolazioni per i servizi scolastici – erano tenuti a certificare  di non possedere case, conti correnti e auto nel loro Paese di origine. Tali documenti  dovevano essere in originale; quindi erano molto difficili da reperire, soprattutto in alcuni Stati africani e sudamericani.  Quei servizi (mensa, scuolabus, ecc.) divennero pertanto inaccessibili a oltre 200 bambini, figli di extracomunitari. Scoppiò uno scandalo. La notizia fece il giro del mondo. Persino i maggiorenti “grillini” si dissociarono. Si mobilitò l’opinione pubblica; furono organizzate raccolte di fondi e soprattutto venne presentato un ricorso alla magistratura che lo accolse considerando discriminatoria la delibera. Forti di quell’esperienza le “menti” leghiste (Dio le riposi) hanno rimesso a punto la “linea Lodi” per quanto riguarda la documentazione degli stranieri che intendono “scroccare” il RdC. Così, gli stranieri extracomunitari, che ne richiedono l’accesso, dovranno presentare una “certificazione” di reddito e patrimonio  del nucleo familiare rilasciata dallo Stato di provenienza, “tradotta” in italiano e “legalizzata dall’Autorità consolare italiana”.

 

Le nuove regole non varranno (bontà loro) per i rifugiati politici e per gli stranieri che provengono da Paesi dai quali non è possibile ottenere la documentazione richiesta. Nei tre mesi successivi all’entrata in vigore della legge (il termine è  ordinatorio), il ministero del Lavoro stilerà una lista dei suddetti Paesi. Così, gli immigrati che avessero i requisiti per chiedere il reddito di cittadinanza dovranno attendere – un vero e proprio sussulto  di perfidia – la pubblicazione di tale elenco prima di presentare la relativa domanda. Altrimenti, non saranno in grado di conoscere come viene giudicata, dalle autorità italiane, l’amministrazione civile, mobiliare ed immobiliare dello Stato di appartenenza. In ogni caso, recarsi in Patria (anche se lo Stato fosse escluso dalla black list ministeriale) per acquisire i documenti, farli tradurre e certificare, sarà una specie di supplizio di Tantalo per gli interessati.

 

Tutto ciò premesso – se vogliamo metterci buon umore – passiamo ad una norma che evoca una pochade.  Pare che il “genio italico” stia suggerendo di ricorrere   ai divorzi “truffa” ovvero ad atti che, per la data in cui sono avvenuti, facciano supporre una finalità truffaldina allo scopo di riscuotere il RdC. La proposta approvata in Commissione al  Senato prevede che, se due coniugi si siano separati o abbiano divorziato dopo il primo settembre 2018, per poter accedere al reddito di cittadinanza dovranno certificare, con “apposito verbale della polizia municipale”, di non risiedere più nella stessa casa.  I vigili urbani eseguiranno, inoltre, controlli molto scrupolosi per verificare se gli ex coniugi  siano sinceri o no. Pensare al vigile urbano che si reca al domicilio del divorziato (o della divorziata) la mattina presto, ispezionando con cura gli armadi e guardando se qualcuno si nasconde sotto il letto, è una “comica finale”  che dovrebbe essere recitata dal grande Totò. Che a due cittadini sia proibito di “fare i separati in casa” appartiene al novero delle regole assurdamente dirigistiche della disciplina prevista per il RdC.

 

Infine, è in arrivo  un “salario minimo” per i beneficiari del reddito di cittadinanza: saranno obbligati ad accettare un lavoro solo se lo stipendio supera gli 858 euro al mese (ovvero il 10% in più del RdC), immaginiamo al netto. Il che significa che l’accettazione di un lavoro diventa come “l’albero di Bertoldo” e ciò rende ancora più immaginaria la fase 2 dell’operazione: quella della offerta di formazione e di un impiego. A questi “Mississippi navigator” – assunti a migliaia senza esperienza e con rapporti precari – si richiede persino di contrattare la retribuzione del loro assistito. Con questi livelli retributivi (superiori a mille euro lordi mensili) si tagliano fuori tutti i rapporti di lavoro a part time. E, alla fine, si consegna l’esito dell’operazione alla discrezionalità del percettore del RdC. Sarebbe, infatti, utile capire che cosa succederà se nessuna delle tre offerte corrisponderà a quell’importo. Siamo alla follia, senza un minimo di logica. Tutto sembra divenuto possibile: avere il RdC, scegliersi il lavoro, rivendicare un salario adeguato. La “condizionalità” non è più a carico dell’assistito, ma dell’amministrazione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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