Politically (in)correct – Pensioni: scalone che va, scalone che viene

Bollettino ADAPT 27 gennaio 2020, n. 4

 

“Come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Quando il Divino poeta scriveva questi versi non si riferiva certo agli “scaloni” che, secoli dopo, avrebbero ossessionato gli italiani in prossimità della pensione. Che cosa rappresenta l’accrescitivo maschile della parola “scalino” nel linguaggio metaforico della previdenza? Diciamo subito che, come i vini d’annata, vi sono diverse fattispecie di “scaloni”, identificate con il nome del ministro che ne è stato il promotore. L’effetto comune consiste in un brusco innalzamento dell’età pensionabile (mentre di solito si usa una prudente gradualità per andare – come si dice in proposito – a regime).

 

Limitandoci alla cronaca recente del caso Italia, il primo “scalone” molesto venne inserito dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti nella legge di riforma (si fa per dire) delle pensioni proposta dal titolare del Lavoro Roberto Maroni (ambedue appartenenti al secondo governo Berlusconi). In sostanza, mentre l’esecutivo tergiversava nel dare avvio ad un necessario e graduale innalzamento del requisito anagrafico previsto per il trattamento di anzianità, veniva disposto un salto da 57 a 60 anni a partire dal 1° gennaio del 2008 (a legislatura già terminata).  In una sola notte l’età pensionabile sarebbe aumentata di tre anni.

 

Allora, ben più di adesso, le pensioni di anzianità erano strenuamente difese dai sindacati e quindi dai partiti di sinistra che si coalizzarono (in 17) nell’Unione di Romano Prodi, che, nel 2006, vinse le elezioni politiche. Il governo del professore si trovò, quindi, a dover onorare l’impegno assunto a chiare lettere nel programma elettorale: “eliminare l’inaccettabile gradino e la riduzione del numero delle finestre che innalzano bruscamente e in modo del tutto iniquo l’età pensionabile”. Il genio italico condusse all’invenzione delle c.d. quote: ovvero ad un criterio per cui era consentito di accedere al pensionamento di anzianità facendo valere un numero, crescente nel tempo, che fosse la somma tra l’età anagrafica e l’anzianità contributiva, secondo quanto indicato dalla tabella che segue.

 

Nuovo requisito minimo per l’accesso al pensionamento (con 35 anni di contributi versati)

Data Dipendenti anni Dipendenti quota Autonomi anni Autonomi quota
1.1.2008 58 59
1.7.2009 59 95 60 96
1.1.2011 60 96 61 97
1.1.2013 61 97 62 98

 

In sostanza, lo “’scalone” venne – come si disse allora – “spalmato”, con maggiori oneri per i conti pubblici di circa 7,5 miliardi in un decennio. È bene ricordare che le “quote” erano una delle vie d’uscita; la seconda richiedeva i classici 40 anni di versamenti a prescindere dall’età anagrafica. Riassumendo:

 

2008-6/2009 35+59 (40) 35+59 (40) 35+60 (40)
7/2009-2010 35+60 (40)

36+59

35+60 (40)

36+59

35+61 (40)

36+60

2011 35+61 oppure 36+60 (40) 35+61 oppure 36+60 (40) 35+62 oppure 36+61 (40)

 

Dopo le elezioni anticipate del 2008, il governo Berlusconi nella XVI Legislatura introdusse due modifiche: a) le “finestre mobili” di cui all’articolo 12 decreto legge 78/2010 convertito con la legge 122/2010. Questa disposizione, ai commi 1 e 2, aveva previsto, che, a partire dal 2011, le pensioni di vecchiaia e di anzianità dovessero essere liquidate, per i lavoratori dipendenti, trascorsi 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti vigenti e per i lavoratori autonomi e gli iscritti alla c.d. gestione separata, trascorsi 18 mesi dalla data di maturazione dei requisiti medesimi; b) l’aggancio automatico periodico dell’età pensionabile all’incremento dell’attesa di vita.

 

Così, alla fine del 2011, la riforma Fornero decise di abolire il sistema delle quote e, per quanto riguarda il trattamento di anzianità, di assorbire nel requisito sia il periodo della finestra sia i mesi corrispondenti all’attesa di vita nel frattempo maturata. In sostanza, vi fu un’accelerazione dell’andata a regime del sistema che produsse il fenomeno dei c.d. esodati, per risolvere il quale furono predisposte dai governi ben 8 provvedimenti di salvaguardia destinati ad una platea di circa 200mila lavoratori. Si partì dal 1° gennaio del 2012 da 42 anni e un mese di anzianità contributiva (41 e un mese donne), per arrivare nel 2018 – quando il requisito fu bloccato dal governo Conte 1 fino a tutto il 2026 – a 42 anni e dieci mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne.

 

C’è da precisare che l’aggancio all’attesa di vita, prima della riforma Fornero, era previsto solo per il requisito anagrafico non anche per quello contributivo.  Perché si riparla di scalone? Il decreto n.4 del 2019 ha introdotto nel sistema due deroghe sperimentali: di una (il blocco dei requisiti di anzianità) abbiamo già parlato; l’altra è quella riguardate la c.d. quota 100 (ovvero la possibilità di andare in quiescenza facendo valere almeno 62 anni di età e 38 di contributi): un’opzione che resterà in vigore fino a tutto il 2021. Al termine del periodo di sperimentazione – rebus sic stantibus – torneranno ad essere applicate le regole della riforma del 2011 (con uno scalone di cinque anni).

 

Ecco perché è iniziato il confronto con le confederazioni sindacali allo scopo di riordinare la materia. Le proposte emerse nel dibattito sono parecchie, tutte rivolte ad una brusca conversione al ribasso dei requisiti disposti dalla riforma Fornero. Le varie proposte sono state riassunte con una sintesi efficace da PMI.it del 23 gennaio scorso. Pertanto è il caso di riprendere e citare quel testo.

 

  • Proposta Tridico. Abbassare il tetto di età attualmente previsto per la pensione di vecchiaia (67 anni) ma calcolare l’assegno interamente con il metodo contributivo. Si tratta di un’opzione simile all’attuale Opzione Donna, destinata esclusivamente alle lavoratrici e che prevede un’età più bassa (59 o 60 anni), con almeno 35 anni di contributi. Il calcolo interamente contributivo può abbassare l’assegno previdenziale fino al 30%.
  • Proposta Brambilla. La cosiddetta Quota 102, che rappresenta anche una delle ipotesi allo studio dei tecnici dell’esecutivo. Prevede una nuova possibilità di pensione anticipata con 64 anni di età e 38 anni di contributi. In pratica, alza di due anni il requisito di età della Quota 100. Ma introduce anche una penalizzazione sul calcolo, che anche in questo caso sarebbe interamente contributivo.
  • Quota 100. Ci sono componenti della maggioranza favorevoli a rendere strutturale l’attuale meccanismo della Quota 100, consentendo quindi di andare in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi, senza penalizzazioni sul calcolo.
  • Quota 99. È un’altra proposta che arriva dalla maggioranza di Governo, in particolare dal sottosegretario al Lavoro, Francesca Puglisi, che prevede anche un bonus per le lavoratrici mamme. Pensione a 64, anni, con 35 anni di contributi. Niente ricalcolo contributivo (quindi, niente penalizzazioni sulla parte retributiva), e bonus mamma, ovvero un anno di contributi in più per ogni figlio alle lavoratrici.
  • Proposta sindacati. Prevede 62 anni di età e 20 anni di contributi, senza penalizzazioni. In pratica, si tratterebbe di un abbassamento dell’età anagrafica attualmente prevista per la pensione di vecchiaia (che richiede 67 anni di età, e 20 anni di contributi). Anche qui, la proposta non prevede ricalcolo contributivo. Oppure, 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età: questo è invece un abbassamento dei requisiti attualmente previsto per la pensione anticipata, pari a 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne).
  • Proposta Nannicini. Un disegno di legge presentato dal senatore del Pd prevede la pensione a 64 anni di età e 20 anni di contributi, ma con il ricalcolo contributivo.

 

Tranne quella di Cgil, Cisl e Uil che è un vero e proprio ritorno al passato, a prima della riforma del 2011, le altre proposte presentano tutte la medesima caratteristica: viene privilegiato l’anticipo dell’età di pensionamento rispetto alla adeguatezza della prestazione (che è sottoposta interamente al calcolo contributivo). Prima o poi, sarà necessario anche porsi il problema dei maggiori oneri, certamente occorrenti se si confrontano le diverse proposte sul tappeto con il percorso previsto dalla riforma Fornero (si veda la sottostante tabella).

 

2016-2018  42 anni e 10 mesi (41 anni 10 mesi le donne)
2019-2020 * 43 anni e 2 mesi (42 anni 2  mesi le donne)
2021-2022 * 43 anni e 5 mesi (42 anni 5  mesi le donne)
2023-2024 * 43 anni e 8 mesi (42 anni 8  mesi le donne)
2025-2026 * 43 anni e 11 mesi (42 anni 11 mesi le donne)
2027-2028 * 44 anni e 2 mesi (43 anni 2 mesi le donne)
2029-2030 * 44 anni e 4 mesi (43 anni 4 mesi le donne)
2035 * 44 anni e 10 mesi (43 anni 10 mesi le donne)
2040 * 45 anni e 2 mesi (44 anni 2 mesi le donne)
2045 * 45 anni e 8 mesi (44 anni 8 mesi le donne)
2050 * 46 anni  (45 anni le donne)

* I valori indicati dal 2019 in poi sono adeguati alla speranza di vita sulla base delle stime fornite dall’ISTAT.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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