Politically (in)correct – Pensioni d’oro: la legge del taglione di Luigi Di Maio

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Luigi Di Maio – ex webmaster approdato alla vice presidenza della Camera e candidato del M5S alla presidenza del Consiglio – ha lanciato un sasso nella piccionaia delle pensioni proponendo non ben precisati interventi sulle c.d. pensioni d’oro che – a suo avviso – comporterebbero una spesa complessiva annua di 12 miliardi di euro (sui 280 miliardi complessivi). Ovviamente la dichiarazione ha suscitato immediate polemiche – si è mobilitato lo stesso Matteo Renzi – sulla correttezza dell’ammontare indicato da Di Maio che è stato accusato di voler colpire – per poter intervenire in un bacino tanto oneroso – anche i trattamenti medio-bassi e medi.

 

Chi segue lo sgangherato dibattito che fa da contorno agli autodafé in materia di pensioni si è reso conto che permane un equivoco di fondo: non si capisce mai se si parla di pensioni al netto o al lordo. In verità il marchingegno è chiaro: se è lui ad essere intervistato, il pensionato fornisce sempre l’importo al netto, mentre, quando l’intervistatore vuole mettere alla gogna il pensionato d’oro ne denuncia l’ammontare al lordo, facendo finta di dimenticare che quella somma viene dimezzata dalle tasse.

 

Tornando, però, al punto da cui siamo partiti, è difficile dare torto – anche desiderando farlo – a Di Maio: nell’insieme che raccoglie 280 miliardi di spesa, 23 milioni di prestazioni e 16,3 milioni di pensionati, esiste sicuramente un “sottoinsieme” che arriva a 12 miliardi: l’importante è lasciare scorrere il cursore fino al livello che consente di far tornare il conto. Nel variegato mondo della previdenza non ci sono segreti: si trova sempre ciò che si cerca se ci si applica con lo studio e l’onestà intellettuale che sono necessari. Certo, il buon Di Maio farebbe bene a fornire qualche dato in più: in che cosa consisterebbe l’intervento sugli assegni messi sotto tiro e quale sarebbe invece il limite di franchigia riconosciuto ai saprofiti delle pensioni d’oro.

 

Ma l’addentrarsi in un percorso contrassegnato da qualche pietra miliare può essere rischioso anche per un politico che ha fatto del moralismo demagogico il proprio programma politico. Potrebbe esserci qualcuno, impegnato a tirare ortaggi maleodoranti ai riccastri in pensione infilati nella gogna, il quale improvvisamente si accorge che – additando al biasimo collettivo quegli importi – alla fine rischia di infilare nel tritacarne anche le sue prebende. Ma se vogliamo essere seri, la questione è un’altra: è un reato percepire una buona pensione, a prescindere dal modo e dalle regole – magari ultracorrette –  con le quali è stata assicurata? Lungi da noi il proposito di evocare il fantasma dei diritti acquisiti, perché siamo consapevoli che nella storia della previdenza italiana si è abusato spesso di tale principio (che peraltro è di rilievo costituzionale assai dubbio): un tema siffatto, tuttavia, non può essere affrontato con la logica delle Guardie Rosse che indossavano tutti, uomini e donne, il medesimo abito (una sorta di clergyman comunista) in nome dell’uguaglianza. Sarebbe il caso di ricordare che in Italia a ristabilire rapporti corretti tra i redditi dovrebbe provvedere un sistema fiscale regolato secondo criteri di progressività da cui deriva che il 3,3% dei pensionati paga quasi il 28% di tutta l’Irpef (a carico della categoria).

 

Ma c’è di più: a percepire 100mila euro lordi l’anno di pensione vi sono circa 180 mila pensionati (meno dell’1%) i quali pagano il 13% dell’imposta sul reddito. Anche sul versante dei grandi numeri emergono aspetti che sarebbe bene ricordare (in proposito sono importanti ed esaustivi i rapporti annuali di Itinerari previdenziali, il think tank di Alberto Brambilla): dei 57 miliardi versati dai pensionati a titolo di Irpef (riferiti anche ad altri redditi e non solo alla pensione) ben 43 miliardi sono a carico del 30% di loro. La livella fiscale non si ferma a questo punto: un contribuente, pensionato o non, con un reddito compreso tra 55mila e 100mila euro paga un’imposta 31 volte superiore a quella pagata dal 46,5% dei contribuenti con redditi fino a 15mila euro; tra 100 e 200mila, 65 volte; tra 200 e 300mila fino a 129 volte; sopra i 300mila euro ben 336 volte. Un contribuente con un reddito di 100mila euro paga in un solo anno quanto uno dei 19 milioni con reddito inferiore a 15mila euro paga in 40 anni. Non viene fatta giustizia in questo modo oppure si deve tracciare una via crucis specifica per le pensioni?

 

Volendo, i nuovi “tagliatori di teste”, i  Savonarola de no antri,  potrebbero tenere a mente due questioni che di solito vengono denunciate e lasciate cadere un secondo dopo: a) in Italia vi sono più di 500mila  baby pensioni (erogate a persone ancora giovani con requisiti particolarmente ridotti e percepite ormai da lunghi anni con una altrettanto  lunga prospettiva di riscossione in futuro) a cui nessuno ha mai pensato neppure di chiedere un modesto contributo di solidarietà, nonostante che il loro onere per il sistema ammonti a 9,5 miliardi annui; b) il disegno di legge Richetti  – che piace tanto al M5S – garantisce anche  l’intangibilità delle c.d. pensioni d’oro, perché stabilisce (al comma 5 dell’articolo 12) che il ricalcolo contributivo  – da applicare retroattivamente ai vitalizi degli ex parlamentari – non potrà mai essere previsto ed introdotto nel caso di lavoro dipendente o autonomo.  È soltanto una foglia di fico perché, anche se fosse approvata questa legge assurda e punitiva, un altro provvedimento di natura ordinaria – persino un decreto legge da convertire – potrebbe modificare quella norma di presunta salvaguardia. Ma ciò costituisce la prova di un modo di legiferare fondato sul rancore. E sull’invidia sociale.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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