Politically (in)correct – Paranoia e parafrenia elettorale

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Quando all’Università (sono trascorsi più di cinquant’anni) frequentavo le lezioni di Medicina legale (un esame complementare che a noi, studenti di giurisprudenza, interessava parecchio) ricordo che, in occasione della presentazione in aula, del caso di un malato di mente (allora venivano rinchiusi nei manicomi) il professore spiegò la differenza tra paranoia e parafrenia. Ricordo ancora quelle descrizioni, anche se non sono in grado di confermare la sussistenza del loro valore scientifico, oggi. Il paranoico, disse, è un malato che sulla base di un’idea delirante costruisce un percorso lucido e coerente. Il parafrenico, invece, è delirante in tutti i suoi atteggiamenti (in parole povere, crede di essere Napoleone).

 

Mi è tornata in mente questo episodio di una lontana giovinezza leggendo il programma elettorale della coalizione di centrodestra. Anzi, da profano, mi sentirei di diagnosticare – nel campo delle politiche pubbliche, economiche e sociali – la presenza di evidenti sintomi di paranoia che degradano in acuta parafrenia.

 

L’idea paranoica – il delirio di base – è la c.d. flat tax. So benissimo che l’introduzione di un sistema fiscale ad aliquota unica è sostenuta anche da think tank molto autorevoli, i quali, tuttavia, si pongono il problema di come coprire sul versante della spesa la perdita di gettito che immediatamente si verificherebbe. Si può dunque essere favorevoli o contrari a questa misura; quello che non si può fare è sostenerne l’adozione sulla base di un auspicio, di uno slogan, di una frase fatta: “pagare meno, pagare tutti”; e quindi recuperare risorse da contribuenti già evasori che diventerebbero virtuosi in presenza di una fiscalità meno esosa.

 

A prescindere dal fatto che le regole della contabilità nazionale ed europea non consentano di redigere bilanci fondati sugli auspici, ma richiedono che i provvedimenti di spesa siano ancorati ad un assetto di entrate credibili (sia pure soggette alla fallibilità delle azioni umane), gli analisti – si vedano in proposito gli articoli (a firma di Massimo Baldini e Leonzio Rizzo) comparsi su “ lavoce.info” – ipotizzano un minor gettito di 50 miliardi se l’aliquota fosse del 15% come propone Matteo Salvini: risorse che non sarebbero assicurate dalla flat tax neppure se grazie ad essa si recuperasse l’intera evasione. “Con aliquota e deduzione proposte dalla Lega Nord – scrivono gli autori – la crescita di base imponibile complessiva che garantirebbe un gettito pari a quello odierno dovrebbe essere del 45 per cento, una variazione impossibile nel giro di pochi anni”. Per quanto riguarda l’ex Cav., invece, “in totale il costo delle proposte di Forza Italia su Irpef e trasferimenti alle famiglie è di circa 90 miliardi all’anno”.

 

A mio avviso, però, ci sono altri particolari che meritano di essere considerati. Innanzi tutto, la composizione della platea dei contribuenti in Italia. Su 60 milioni di abitanti, 41 milioni presentano la denuncia dei redditi, ma solo 31milioni sono contribuenti effettivi. Il 46,5% (19 milioni) denuncia un reddito annuo negativo, pari a zero o inferiore a 15 milioni. Per farla breve, l’86% di tutta l’Irpef è a carico del 38% dei contribuenti: la colonna portante del sistema, quindi, sarebbe la platea destinataria dell’aliquota unica.

 

Mentre si mette a rischio il gettito fiscale, nel programma di centrodestra non si hanno ritrosie per gli incrementi della spesa. Leggiamo insieme: a) azzeramento della povertà assoluta con un grande Piano di sostegno ai cittadini italiani in condizione di estrema indigenza, allo scopo di ridare loro dignità economica; b) aumento delle pensioni minime e pensioni alle mamme; c) estensione delle prestazioni sanitarie; d) raddoppio dell’assegno minimo per le pensioni di invalidità e sostegno alla disabilità; e) incentivi all’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro; f) azzeramento della legge Fornero e nuova riforma previdenziale economicamente e socialmente sostenibile.

 

Come si può notare si rimane nel generico, si mena il can per l’aia, non vengono indicati, nero su bianco (a meno che non risultino in programmi particolareggiati), i numeri che circolano nelle occasioni di propaganda elettorale. Tutto ciò in un quadro in cui si prendono visibilmente le distanze – persino sul piano giuridico – dal contesto di regole istituzionali, finanziarie ed economiche, che tengono insieme l’Unione europea (il punto 3 è chiaro fin dal suo titolo: meno vincoli dall’Europa).

 

Prendiamo atto – in questo caso positivamente – che non vi è alcun riferimento al jobs act, di cui si era temuta persino l’incauta proposta di abolizione, subito ritrattata. L’attenzione cade, dunque, sulle sorti annunciate per la legge Fornero sulle pensioni che dovrebbe essere “azzerata” (come si fa a ridurre a zero una legge?) per fare posto ad “una nuova riforma previdenziale economicamente e socialmente sostenibile”. Essendo la riforma del 2011 corrispondente (fino a prova contraria) all’obiettivo della sostenibilità economica, siamo autorizzati a pensare che il difetto stia nella sua insostenibilità sociale. Si potrebbe a lungo discutere di questo assioma, soprattutto dopo i provvedimenti adottati (otto salvaguardie per i c.d. esodati, la cancellazione di ogni penalizzazione economica nel caso di trattamento anticipato prima dei 62 anni, le diverse tipologie di Ape, i benefici strutturali per i c.d. precoci e per le categorie disagiate, la proroga temporanea dell’opzione donna, ecc.) che hanno “addolcito” – troppo per chi scrive – l’amaro calice. Intanto, i dati statistici dimostrano che la maggioranza dei pensionati è tuttora in grado di avvalersi dei requisiti ridotti della pensione di anzianità, in barba al malpancismo dei 67 anni.

 

Ma siamo davvero sicuri che le proposte del centrodestra siano “socialmente” più sostenibili delle regole in vigore? Il solo che fornisce, nel dibattito elettorale, qualche elemento di merito è Matteo Salvini, secondo il quale i lavoratori devono poter andare in pensione dopo aver maturato 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. E basta. Sembrerebbe essere questo il solo criterio proposto dal “nuovo giustiziere”. Bene. Un regime siffatto peggiorerebbe di molto la condizione delle donne, nel senso che non riuscirebbero più ad andare in quiescenza se non ad un’età ben superiore ai 67 anni di età, ammesso che siano in grado di lavorare fino alla maturazione dei fatidici 41 anni di servizio.

 

A Salvini piace semplificare i problemi complessi. Ma percorrendo delle strade accidentate si rischia di precipitare in una buca. Soprattutto quando si suona ad orecchio una musica molto complessa, senza prendersi la briga di consultare gli spartiti (leggi: i dati). Se gli strateghi della Lega studiassero un po’, dovrebbero porsi una domanda: come mai sono le lavoratrici ad avvalersi dei trattamenti di vecchiaia, mentre i lavoratori si affollano su quelli di anzianità? Le pensioni vigenti nei settori privati all’inizio del 2017 segnalavano questa drastica differenza di genere: 3,3 milioni di uomini erano in pensione anticipata contro 940mila donne; nel caso della vecchiaia il rapporto si invertiva con 3,1 milioni di donne contro 1,7 milioni di uomini. Nel corso dell’anno passato i flussi hanno confermato questo trend. Prendendo a riferimento il caso del Fondo dei lavoratori dipendenti (FPDL-INPS) le pensioni anticipate percepite dai lavoratori sono state 63mila contro 25mila liquidate alle donne. É bene ricordare che, in media, un trattamento anticipato è pari a 2,2mila euro mensili lordi a fronte dei mille euro della vecchiaia (in sostanza – si noti en passant – Berlusconi vorrebbe allineare l’importo delle pensioni minime con quanto adesso è corrispondente a quello medio).

 

A determinare siffatta situazione non è un destino cinico e baro che si accanisce contro le lavoratrici, ma il modo con cui le attuali generazioni di lavoratori e lavoratrici – che hanno varcato la fatidica soglia o si apprestano a farlo – sono state presenti sul mercato del lavoro. In media, al momento della cessazione dell’attività un uomo porta seco il bagaglio di 38 anni di lavoro, mentre una donna di 25,5 anni. Ne deriva che le lavoratrici, in larga maggioranza, finiscono per raggiungere prima la soglia anagrafica prevista per la vecchiaia, quando sono richiesti soltanto venti anni di contributi per ottenere la pensione, piuttosto che inseguire il requisito, superiore ai 40 anni, che prescinde dall’età anagrafica. Ciò mentre i lavoratori delle stesse generazioni – che hanno storie di attività più solide e continuative – sono ancora adesso in grado di arrivare alla quiescenza (anticipata) ad un’età effettiva intorno ai 61 anni (61,1 nel 2017 nel FPLD).

 

Il ragionamento è un po’ complesso, ma la conclusione è chiara. Se la ricetta Salvini dovesse diventare la regola generale, essa si potrebbe applicare, nei fatti, soltanto agli uomini, visto che quei requisiti contributivi (41 anni) sarebbero irraggiungibili per la maggioranza delle lavoratrici. Che fare, allora? Si girerà all’indietro la moviola della storia e delle riforme per ripristinare un differenziale al ribasso per l’età pensionabile delle lavoratrici, rimettendo in discussione quella unificazione tra i generi che viene portata avanti da decenni e che nel pubblico impiego – per evitare le sanzioni dell’Unione europea – è già in atto dal 2009? Come si dice in questi casi: in God we trust.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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