Politically (in)correct – “O italiani, io vi esorto alle storie”

Bollettino ADAPT 28 settembre 2020, n. 35

 

Ci appropriamo di una celebre frase di Ugo Foscolo per andare a cercare nel passato qualche vicenda autorevole e colta che ci consoli della squallida e plebea miseria del presente. Vivendo in una realtà nella quale il pensiero è divenuto inutile e pericoloso, è confortante, talvolta, andare a risciacquare “i panni in Arno” di un pensiero forte, che rimane tale anche quando nel suo percorso si rivela un ideale smentito dalla storia.

 

Questa premessa serve a presentare un libretto trovato su di una bancarella dell’usato intitolato: “Scritti sul sindacato” di Antonio Gramsci. È una sorta di antologia – pubblicata nel 1972 da Sapere edizioni – che raccoglie scritti sull’argomento (quasi sempre articoli su ‘’Ordine nuovo’’ o relazioni congressuali e documenti politici) di uno dei maggiori intellettuali del secolo scorso, fondatore del Partito comunista d’Italia, condannato, nel giugno del 1927, a 20 anni di carcere dal Tribunale speciale fascista (nella requisitoria il titolare dell’accusa aveva affermato ‘’Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni’’).

 

Gramsci passò l’ultima fase della vita nel penitenziario di Turi (prima che venisse liberato per gravi ragioni di salute e ricoverato, ormai alla fine, nella Casa di Cura Quisisana di Roma dove morì nell’aprile del 1937 a 46 anni) ad affidare le sue riflessioni a quei “Quaderni del carcere” che restano un’opera importante di interpretazione dei processi politici, economici e sociali che caratterizzarono e sconvolsero l’epoca storica in cui Gramsci visse e che ebbero come epicentro la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la grande tragica illusione del Comunismo.

 

Il Partito comunista d’Italia nacque nel gennaio del 1921 da una scissione del Psi, durante il Congresso di Livorno. Le direttive per l’Italia della III Internazionale comunista consistevano in 21 punti a cui i partiti aderenti avevano l’obbligo di adeguarsi. Non è questa la sede adatta per affrontare tali problemi se non per richiamarne il senso generale di auto-isolamento e di rottura settaria. La tesi leninista era spiegata così: ’’oggi in Italia (…) si avvicinano battaglie decisive del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere statale’’ perciò ‘’in un momento simile non solo è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i ‘mensevichi’, i riformisti, i turatiani, ma può essere utile persino allontanare da tutti i posti di responsabilità anche degli eccellenti comunisti, che sono suscettibili di tentennare’’. Tra i 21 punti era indicato anche quello di ‘’lottare contro il sindacato giallo dei socialdemocratici’’ (Giorgio Bocca: Palmiro Togliatti. Laterza,1977). Nella raccolta degli scritti di Gramsci sul sindacato emerge, invece, una linea diversa in proposito: il rifiuto di costituire un ‘’sindacato rosso’’ e una grande attenzione per la Confederazione generale del Lavoro (Cgl) saldamente diretta dai socialisti riformisti (Ludovico D’Aragona, Bruno Buozzi, ecc.).

 

È un pensiero che Gramsci portò avanti con coerenza sia pure nel corso di un arco temporale di pochi anni, densi però di avvenimenti che imposero radicali trasformazioni del contesto istituzionale, politico e sociale (dall’epopea dell’Occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920 alla Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 che portò al potere il fascismo). Gramsci ha ben presente i differenti ruoli che devono svolgere il partito e il sindacato. Quest’ultimo si muove necessariamente nell’ambito della società borghese e capitalista, non è suo compito ‘’fare la rivoluzione’’ (non a caso l’occupazione delle fabbriche si concluse con un vantaggioso accordo sindacale), che spetta al partito del proletariato. Su L’Ordine nuovo dell’8 maggio 1920 Gramsci scrive che le cause della sconfitta operaia ‘’non debbono essere ricercate negli sforzi, nella genialità, nelle colpe, negli ‘’errori o nei ‘tradimenti’ di alcuni capi, ma nello stato generale della società e nella condizione di esistenza di ciascuna nazione sconvolta’’. Poi con riferimento alla lotta dei lavoratori torinesi, ‘’la classe operaia è stata sconfitta perché in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico e disciplinato di insieme della classe operaia e contadina’’.

 

Così, nella Risoluzione proposta dal Comitato centrale per il II Congresso del Partito comunista d’Italia (Roma 20-24 marzo 1922) era contenuto un paragrafo (il IV) riguardante ‘’Il problema dell’unità sindacale in Italia’’. ‘’Il problema fondamentale che si pone al Partito comunista – era scritto – è quello dell’unificazione dell’azione delle grandi masse. Questo problema è reso più difficile in Italia che in altri Paesi dall’esistenza di una molteplicità di centrali sindacali’’. ‘’Ma se il problema è difficile – proseguiva – non perciò deve essere trascurato dal Partito comunista, il quale, proponendosi di trasferire nell’interno di una sola grande organizzazione le discussioni tra le varie tendenze politiche proletarie e cercando di convertire in lotta per la conquista della dirigenza di questa sola  grande organizzazione l’attuale lotta per disgregarsi a vicenda che conducono in Italia le diverse centrali, si propone di creare la condizione prima per la nascita dello Stato operaio’’. Ed ecco la scelta di campo esplicita:” La Confederazione generale del lavoro è, per il Partito comunista, la base per l’unità organizzativa della classe operaia italiana. Per il suo stesso carattere attuale di organizzazione diretta dai riformisti, la Confederazione dimostra (un bel riconoscimento, ndr) di aderire più strettamente alle esigenze elementari della classe oppressa’’. E proseguiva a conclusione di altre considerazioni polemiche nei confronti degli anarco-sindacalisti (‘’che si avvicinano più alla natura del partito politico che del sindacato professionale’’): ‘’Appunto per questa ragione, alla scissione socialista del Congresso di Livorno non è seguita una scissione della Confederazione’’. Tanto che su “Lo Stato operaio” del 18 ottobre 1923 Gramsci riconobbe che ‘’la Confederazione generale del lavoro nel suo complesso rappresenta ancora la classe operaia italiana’’. Si aggiungano poi altre affermazioni di grande ragionevolezza a prova della ferma determinazione dell’unità sindacale: Il Partito comunista “non domanda di essere rappresentato nelle trattative, non si pronuncia sul procedimento di queste, per facilitare che si trovi una via accettabile da tutti i sindacati interessati (…) Il Partito comunista impegna i suoi aderenti a rispettare i pronunziati della maggioranza del nuovo organismo sindacale unico”.

 

Tuttavia è duro il giudizio sui funzionari sindacali riformisti che vengono definiti ‘’mandarini’’ dai comunisti. (Gramsci ricorda che in Germania li chiamavano ‘’bonzi’’). ‘’I funzionari riformisti – sostiene Gramsci ne L’Ordine nuovo del 23 giugno 1921 – disprezzano le masse operaie così come i mandarini, uomini di alta casta, gente uscita dalla Corte imperiale, disprezzano i loro sudditi (…) mentre “è necessario che a dirigere le masse siano chiamati uomini che conservino intatto lo spirito proletario, che non siano divenuti scettici, (…) che sentano come cosa loro i dolori e le speranze delle moltitudini oppresse e lottino sinceramente per la redenzione dell’umanità’”.

 

A questo proposito mi sovviene un ricordo personale. Nell’autunno del 1969, quando era in corso la lotta per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, mi recai una mattina all’alba a fare il picchetto ad una delle porte della Fiat Mirafiori. Era un picchetto simbolico perché c’ero solo io insieme a qualche funzionario della Fiom di Torino. Poi si presentavano ogni tanto degli attivisti di fabbrica, in generale d’origine meridionale, al cospetto dei quali i funzionari – gente tutta di un pezzo formata ad una scuola durissima, quasi sempre ex operai Fiat licenziati per rappresaglia – si mettevano a parlare in un dialetto incomprensibile che i lavoratori non capivano. La cosa mi colpì perché era evidentemente un modo per comunicare tra di loro. Non si trattava di un pregiudizio antimeridionale (in quegli anni comunque molto diffuso in conseguenza dei grandi flussi di immigrazione interna in direzione del c.d. triangolo industriale); ma dell’atteggiamento degli appartenenti ad una aristocrazia operaia, altamente sperimentata e professionalizzata, nei confronti di lavoratori adibiti alle catene di montaggio.

 

Chiudendo questa parentesi personale non si può parlare del rapporto tra Antonio Gramsci (e gli “ordino visti” torinesi) e il sindacato senza ricordare l’esperienza dei consigli di fabbrica, magari seguendo il filo che li vide rinascere a seguito dell’autunno caldo tanti decenni dopo come struttura di base del sindacato. Nel Programma dell’Ordine nuovo “il Consiglio di fabbrica è un istituto di carattere “pubblico”, mentre il Partito e il sindacato sono associazioni di carattere “privato”. Nel Consiglio di fabbrica l’operaio entra a far parte come produttore (…) in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a fare parte dello Stato democratico’’. Il partito e il sindacato, pertanto, per questo loro carattere di “volontarietà”, per questo loro carattere “contrattualista” non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio’’. ‘’In una fabbrica gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in modo determinato esattamente dalla tecnica industriale – era scritto nel programma –  che, in un certo senso è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dei valori prodotti’’.

 

Le memorie di questo dibattito si sono ripresentate all’inizio degli anni ’70, quando nell’allora categoria egemone del movimento sindacali – i metalmeccanici – si pose il problema di ripristinare l’esperienza dei consigli di fabbrica, attraverso la elezione da parte di tutti gli appartenenti al gruppo omogeneo chiamato ad eleggere il proprio delegato. Anche in quel dibattito si fece sentire – a Torino e in parte del mondo politico – l’onda lunga del pensiero gramsciano che attribuiva all’esperienza consiliare un ruolo autonomo di rappresentanza operaia con il quale il sindacato era chiamato a confrontarsi. Prevalsero la tesi e la pratica della “sindacalizzazione” delle nuove strutture di base, anche attraverso il superamento delle Commissione interne che avevano scritto un pezzo di storia sindacale prima e dopo il fascismo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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