Politically (in)correct – No ad una legge sulla rappresentanza sindacale

Bollettino ADAPT 5 marzo 2019, n. 9

 

È forte l’insistenza da parte sindacale – le confederazioni, per fortuna, hanno ripreso visibilità ed autorevolezza – per una legge sulla rappresentanza. Se Maurizio Landini ne ha fatto una priorità ribadita in ogni circostanza, anche le organizzazioni – come la Cisl, ad esempio – tradizionalmente più prudenti nel sollecitare interventi legislativi nel perimetro dell’autonomia collettiva – si dichiarano d’accordo purché la legge recepisca quanto stabilito dalle parti in via negoziale. Ed esiste a tal proposito un accordo interconfederale, con tanto di regolamento attuativo, che affida il compito di certificare il numero degli iscritti di ciascuna organizzazione all’Inps e quello dei voti raccolti nelle elezioni delle Rsu al Cnel, fortunosamente rinato e per altro già impegnato nella individuazione dei c.d. contratti-pirata negoziati al ribasso da sindacati ‘’spuri’’ che tentano di affermarsi sul mercato del lavoro attraverso una concorrenza sleale a danno dei lavoratori.

 

Peraltro, mentre aleggiava minacciosa (perché poi?) l’idea dell’introduzione di un salario minimo legale (sia pure nella forma ridimensionata prevista nel jobs act) Cgil, Cisl e Uil si rassegnarono, in un quadro totalmente regressivo dell’assetto della contrattazione, persino a chiedere l’applicazione dell’articolo 39 Cost. “Il contratto nazionale – era scritto nell’accordo tra le confederazioni del gennaio 2016 – con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo.

 

Le dinamiche salariali dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori.

 

L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’art. 39 della Costituzione’’. Certo, tale articolo fu pensato dai Padri costituenti sulla base di una visione effettiva, in grado di affrontare i problemi della transizione da un’organizzazione sindacale che era parte di una struttura statuale corporativa (imperniata sul dato ontologico della categoria) e che si portava appresso una contrattazione collettiva come fonte primaria del diritto alla ricostruzione di un sistema coerente con la ritrovata democrazia. La norma teneva insieme le questioni della libertà sindacale e quindi del pluralismo associativo, con le grandi tematiche della rappresentanza e della rappresentatività e con procedure finalizzate a far scaturire dal diritto privato un contratto valido erga omnes, alla stregua di una legge. Ma per tante ragioni che non stiamo a ricordare, il sindacalismo repubblicano imboccò un’altra strada. Sotto l’egida della libertà di associazione e del contratto di diritto comune, il sistema delle relazioni industriali fu edificato sulla pietra d’angolo del “riconoscimento’’ tra le parti della reciproca funzione rappresentativa e, soprattutto, dell’attribuzione al comune accordo del carattere di una fonte permanente per il regolamento collettivo. “Qui compare, per la prima volta – sono parole di Gino Giugni – un bisogno di continuità e di certezza dei rapporti, sconosciuto alla normale vicenda del contratto, che nasce e muore nello spazio di un mattino, lega volontà ed interessi individuali, non è, per lo meno nelle sue forme codificate, strumento di permanente organizzazione del potere sociale”. Così la pietra che i costruttori avevo scartato divenne la pietra d’angolo: una condizione di fatto fu eretta ad ordinamento giuridico. Lo Statuto dei lavoratori “stabilizzò” questa situazione. Il diritto sindacale venne “mediato” dalle organizzazioni sindacali in quanto le prerogative dei lavoratori passavano attraverso di esse. L’articolo 19 (nella sua formulazione originaria) era il caposaldo di quel sistema, sulla base di una tautologia condivisa e codificata, perché fondata non sulla dogmatica, ma sulla storia: i contratti sono stipulati da chi è rappresentativo ed è rappresentativo chi stipula i contratti.

 

Il referendum del 1995 inferse una grave ferita all’ordinamento, i cui effetti, sul momento furono sottovalutati, ma che in seguito determinarono conseguenze che misero a rischio il buon funzionamento del sistema, aprendo la porta a una rappresentanza spuria a cui bastava arroccarsi nella singola azienda per essere rappresentativa; e di converso – si veda il caso Fiat prima della sentenza riparatrice della Corte costituzionale n. 231 del 2013 – escludeva chi, pur vantando un’effettiva rappresentatività sul piano nazionale (come la Fiom), si trovava esclusa dalla contrattazione applicata in azienda.

 

Articolo 19 prima e dopo il referendum del 1995

Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito:

a) [delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;]

b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.

 

La radicale trasformazione degli schemi contrattuali che portò Fca ad avere una contrattazione collettiva autonoma, fuori dal contratto nazionale dei metalmeccanici, realizzò certamente il duplice obiettivo di un assetto – insieme – di prossimità, nel territorio, ed uniforme sul piano nazionale. Avrebbe potuto fare di più il management della Fiat-Fca? Certamente. Ma a Sergio Marchionne interessava sistemare l’assetto delle relazioni industriali negli stabilimenti italiani di un gruppo sempre più multinazionale. Il limite di quella svolta nell’ambito delle relazioni industriali stava proprio qui: aver pensato al gruppo in una visione mondiale, inclusiva degli stabilimenti siti da noi, e non al sistema Italia (di relazioni industriali e non solo).

 

A questo punto, però, le domande sono le seguenti: di fronte all’attuale crisi della rappresentanza si deve tornare al “vintage” della norma costituzionale oppure è più opportuno e conveniente aggiustare e rivisitare l’itinerario percorso dalle parti sociali dal dopoguerra ad oggi? Ambedue le opzioni sono aperte nel dibattito: la prima conduce alla legge sulla rappresentanza (che per la sua natura non potrebbe discostarsi più di tanto dall’impianto dell’art.39, pena la sanzione di incostituzionalità); la seconda porta all’implementazione degli accordi interconfederali che hanno regolato la materia nel contesto di un quadro giurisprudenziale, legislativo e fattuale che ha conosciuto innovazioni di rilievo.

 

Nel sistema delle relazioni industriali, tuttavia, un principio basilare ha tenuto, nonostante gli sbandamenti e le messe in discussione: quello del reciproco riconoscimento. In un sistema di libertà sindacale i protagonisti hanno il diritto di scegliersi i propri interlocutori con i quali costruire il futuro delle imprese e dei lavoratori. Una legge sulla rappresentanza ci porterebbe lontani da questo principio fondante. E non si venga a dire che la rappresentanza e la rappresentatività sono già regolate nella contrattazione del pubblico impiego. L’amministrazione pubblica ha l’obbligo dell’imparzialità nei confronti dei propri interlocutori. I soggetti privati no. Soprattutto quando non è in gioco soltanto un modello di relazioni industriali, ma lo sviluppo economico di un Paese. E forse i suoi assetti democratici, aperti e solidali.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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