Politically (in)correct – Lo SMIG ridurrebbe gli spazi di contrattazione come a suo tempo la “scala mobile’”.

Bollettino ADAPT 15 novembre 2021, n. 40

 

A Bruxelles la direttiva sul salario minimo legale è in dirittura di arrivo; così si è riaperto il dibattito anche in Italia. In verità la Commissione ha già chiarito che l’obiettivo del salario minimo può essere raggiunto attraverso la contrattazione collettiva purché abbia un’efficace generale. E questo ci ha messi in difficoltà perché un esito siffatto è raggiungibile nell’ordinamento a condizione che si riesca a snodare un groviglio di questioni giuridiche e pratiche che tutti dicono di voler risolvere ma nessun governo è mai riuscito a farlo: definire, in coerenza con quanto previsto dall’art.39 Cost., i criteri per l’accertamento della rappresentanza e della rappresentatività delle organizzazioni abilitate a stipulare contratti validi erga omnes. È forte, pertanto, la tentazione del governo Draghi di togliersi il pensiero e di saltare il fosso del salario minimo legale.

 

Il governo sembra orientato a puntare sulla introduzione di un salario minimo legale. È all’esame l’ipotesi di fissare un minimo corrispondente a quello del CCNL “multiservizi” circa 8,50 euro/ora lordi in modo che la legge non richieda coperture di finanza pubblica poiché gran parte della PA affida lavori ad aziende che usano contratti “multiservizi”. In proposito esiste un lavoro preliminare svolto al Senato sulla base di un testo predisposto, in qualità di relatrice, dall’allora presidente della Commissione Lavoro, Nunzia Catalfo, che poi divenne ministro del MLPS portandosi appresso quelle elaborazioni, messe tuttavia in sonno per le contingenze politiche sopravvenute (e soprattutto perché troppo generose – persino ultra petita – nei confronti delle organizzazioni sindacali.

 

Per farla breve, il ddl Catalfo, manipolando l’art. 36 Cost.  rimetteva ope legis i sindacati storici al centro del sistema, concedeva la copertura della legge ai contratti da loro sottoscritti insieme ai datori di lavoro e forniva loro una base di 9 euro all’ora, che costituivano – si disse al lordo – il salario minimo. Su questo testo si svolsero audizioni importanti, allargate ai soggetti e alle istituzioni da cui potessero pervenire analisi e valutazioni utili al proseguimento dell’iter legislativo e alla conoscenza degli effetti economici e sociali. Ovviamente, in quelle audizioni non poteva mancare l’Istat che – nella memoria presentata – calcolò che i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro avrebbe comportato un incremento della retribuzione annuale, erano 2,9 milioni ovvero circa il 21% del totale dei prestatori (2,4 milioni escludendo gli apprendisti). Per questi lavoratori l’incremento medio annuale sarebbe stato pari a circa € 1.073 pro-capite, con un incremento complessivo del monte salari stimato in circa 3,2 miliardi di euro. L’adeguamento al salario minimo di 9 euro lordi avrebbe determinato un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 12,7% per quelli interessati dall’intervento. L’incremento percentuale più significativo avrebbe interessato i lavoratori occupati nelle altre attività di servizi (+8,8%), i giovani sotto i 29 anni (+3,2%) e gli apprendisti (+10%).

 

Secondo l’INAPP in quell’occasione presentò delle stime più severe: con un salario minimo fissato a 9 euro lordi, il 14,6% dei lavoratori avrebbe avuto un incremento retributivo per un costo di 4,1 miliardi a carico delle imprese. Sempre secondo l’INAPP l’adeguamento a 9 euro lordi riguarderebbe il 25% degli occupati di imprese fino a 10; il 3% di quelli nelle imprese più grandi. Ciò in un contesto in cui è abbastanza estesa la copertura della contrattazione collettiva.

 

Ammesso e non concesso che il mondo delle imprese accetti assumersi (nel momento in cui tutti cantano in coro che occorre ridurre il costo del lavoro) l’onere del salario minimo legale, mi pare che, in prospettiva, si sottovaluti un problema che non può sfuggire a chi – come lo scrivente – ha vissuto in prima linea la batracomiomachia della c.d. scala mobile. Tra i tanti problemi che quell’istituto creava ce ne era uno che è stato sottolineato da Pierre Carniti, uno dei grandi protagonisti di quella vicenda che si protrasse per un decennio nell’ultimo scorcio del “secolo breve”, nel libro pubblicato postumo “Passato prossimo. Memorie di un sindacalista di assalto, 1973-1985” (Castelvecchi 2019). Lo storico leader della Cisl (pur richiamando a giustificazione gli effetti di ben due crisi petrolifere) ricorda che “l’incidenza sull’incremento delle retribuzioni nominali, dovuto all’indennità di contingenza, passa dal 49,6% del 1974 all’87,2% nel 1980”. In sostanza, in tempi di tassi di inflazione sostenuti, l’automatismo della “scala mobile” finiva per mettere in discussione ed occupare abusivamente il ruolo stesso di “autorità salariale” del sindacato. Mutatis mutandis non potrebbe determinare la medesima conseguenza l’istituzione per legge del salario orario minimo?

 

Secondo l’INAPP 9 euro lordi rappresentano l’87% del salario mediano nazionale. Va da sé che spazi reali di contrattazione verrebbero meno a livello nazionale e potrebbero essere recuperati solo attraverso la contrattazione di prossimità in relazione con gli incrementi della produttività (quanti lamentano che i salari in Italia sono bassi dimenticano di aggiungere che la produttività del lavoro è piatta da quasi trent’anni). Dunque l’introduzione del salario orario minimo potrebbe ridimensionare il ruolo della contrattazione nazionale di categoria, proprio per i limitati margini economici disponibili al di sopra dell’importo dovuto per legge. Forse ci accorgeremmo, a quel punto, che la vera anomalia del sistema contrattuale italiano sta proprio in quell’istituto che abbiamo ereditato dall’organizzazione politico-sociale del periodo corporativo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Politically (in)correct – Lo SMIG ridurrebbe gli spazi di contrattazione come a suo tempo la “scala mobile’”.