Politically (in)correct – Le pensioni al tempo del coronavirus

Bollettino ADAPT 9 marzo 2020, n. 10

 

È assai difficile trovare qualche aspetto positivo nel virus “venuto dal freddo” che sta producendo gli effetti di una Bomba N (l’ordigno nucleare allo studio delle grandi potenze, negli anni ’80, che si limitava ad uccidere le persone risparmiando l’ambiente circostante) in Italia e in gran parte del mondo.  Eppure, almeno un piccolo vantaggio ci sarà: non si parlerà più di pensioni e di ‘’superamento’’ della riforma Fornero, nei termini ‘’garibaldini’’ che stavano al centro del confronto tra governo ed organizzazioni sindacali, sui tanti tavoli tecnici aperti nelle settimane scorse. Mala tempora currunt: per gli anziani è in vigore il domicilio coatto; le manifestazioni promosse dai sindacati dei pensionati sarebbero considerate adunate sediziose a scopo di contagio. Così almeno agli scampati dal virus sarà assicurata la possibilità di ottenere una pensione, ammesso e non concesso che le risorse non siano tutte impiegate per contenere il contagio e per assicurare un minimo vitale a chi è costretto a chiudersi in casa, a mettere in cassa integrazione i propri dipendenti, a chiudere alberghi e ristoranti, a sospendere ogni attività produttiva ed amministrativa. Sono riflessioni, le mie, sicuramente esagerate in giornate in cui viene posta in apnea la parte più vitale del Paese, in un crescendo ad horas che induce ‘’a lasciare ogni speranza’’. E soprattutto ad osservare increduli e spaesati quanto succede sotto i nostri occhi e percepiamo con le nostre orecchie. In queste ore i media hanno scoperto e denunciano – come al solito per sentito dire – i tagli alla sanità perpetrati, negli ultimi anni, in obbedienza alla cultura dell’austerità.

 

Nel DEF 2014, la spesa sanitaria era prevista in lenta flessione in termini di prodotto per tutto l’arco programmatico: dal 7 per cento del Pil nel 2014 al 6,8 nel 2018, ma su livelli assoluti di circa 121,3 miliardi. Nonostante il più lento aumento del Pil rispetto alle previsioni, a consuntivo la spesa si è attestata nel 2018 al 6,6 per cento del Pil, ma su un livello assoluto di spesa inferiore di 6 miliardi. Anche contando i maggiori apporti previsti per il 2020, vi è stata una spesa in valore assoluto inferiore alle previsioni, A nessuno viene il dubbio, però, che maggiori risorse sarebbero state disponibili, se i governi (e le opinioni pubbliche) non avessero privilegiato altre priorità nel campo delle politiche sociali, a partire dalle pensioni, con il cruccio dell’età pensionabile e con politiche che ignoravano non solo le questioni di sostenibilità economica del sistema, ma anche gli inequivocabili andamenti demografici, sottoposti alla destabilizzazione prodotta dall’effetto congiunto dell’invecchiamento e della denatalità. In verità, molte cose sono cambiate.

 

Seppure con il passo del gambero le riforme sono state fatte. Ma vengono messe in discussione. La Corte dei Conti – in sede di monitoraggio della finanza pubblica – ha tratto anche delle valutazioni in merito alle conseguenze delle politiche previdenziali degli ultimi anni sull’età media alla decorrenza delle pensioni liquidate a partire dal 2011 e fino al 2018. Si può osservare innanzitutto – certifica il documento – che l’incremento dei requisiti anagrafici ha ovviamente, e per definizione, comportato un innalzamento dell’età per i pensionati di vecchiaia, ma ha comportato anche un aumento dell’età per le pensioni anticipate. Tra il 2011 ed il 2018 (la riforma Fornero è entrata in vigore nel 2012), per il complesso dei lavoratori del settore privato assicurati presso l’INPS, si è registrata una crescita media di 3,3 anni nel caso delle liquidazioni per vecchiaia (da 63,6 a 66,9 anni) e di 2,2 anni nel caso delle liquidazioni per anzianità/anticipo (da 58,8 a 61 anni).

 

Nel comparto del lavoro autonomo l’incremento dell’età media è stato leggermente inferiore a quello registrato per il lavoro alle dipendenze nel caso di uscita per vecchiaia (3,5 contro 3,7 anni). Tra gli autonomi l’incremento, nel caso della vecchiaia, è abbastanza differenziato nell’ambito dei tre comparti (coltivatori diretti, artigiani e commercianti), con l’incremento maggiore osservato per i commercianti (3,9 anni). Nel caso della gestione dei dipendenti pubblici, per la quale i dati disponibili si fermano al 2017, si riscontrano incrementi dell’età media rispetto al 2011 complessivamente inferiori e che vanno da 1,2 anni per gli iscritti alla Cassa dipendenti dello Stato a 2,8 anni nel caso dei pensionamenti per vecchiaia degli insegnanti.  Se, tra il 2011 e il 2018, l’età effettiva di pensionamento è passata, per le nuove pensioni liquidate nel settore privato, da 61,5 a 63,9 anni nel caso degli uomini e da 60,6 a 62,9 anni nel caso delle donne per quel che riguarda il requisito anagrafico, “Quota 100” viene dunque a ridurre di circa 1 anno e mezzo l’età di pensionamento per gli uomini e di quasi 1 anno per le donne e lo fa nel contesto di un confronto internazionale, in termini di età di uscita dal mondo del lavoro, che non vede l’Italia penalizzata. A tal riguardo, una comparazione su base tendenzialmente omogenea è possibile facendo riferimento ai dati OCSE, analizzati nell’ambito della pubblicazione Pensions at glance. Secondo le evidenze di tale studio, il quale presenta accanto all’età standard di pensionamento (intesa come età legale) una stima dell’età effettiva di uscita dal lavoro, nel 2016 l’Italia consentiva l’uscita a 62,1 anni per gli uomini e 61,3 anni per le donne, valori che si confrontavano con i 65,1 e 63,6 anni nella media dei Paesi OCSE. I Grafici seguenti, contenuti nel Rapporto della Corte dei Conti, mostrano che nella realtà internazionale la distanza tra età effettiva ed età legale assume segno positivo (cioè si resta mediamente a lavoro oltre l’età standard) in 18 dei 35 Paesi dell’OCSE. L’Italia è, con Germania e Francia, nel gruppo dei Paesi dove l’età effettiva è inferiore a quella standard, e la distanza è la più ampia di quelle osservate (-4,4 anni per gli uomini e -4,2 anni per le donne).

 

 

 

C’è un caso specifico che denuncia – se ce ne fosse ancora il bisogno – i danni provocati dalle deroghe sperimentali previste nel decreto n.4/2019 in tema di pensioni (in particolare quota 100 fino a tutto il 2021 e il blocco dei requisiti del trattamento ordinario di anzianità fino a tutto il 2026).  Nella tragedia provocata dal Covid-19 la principale preoccupazione riguarda la tenuta delle strutture ospedaliere, in prima linea nella crisi. Il governo ha deciso di ricorrere a nuove assunzioni e a stanziare maggiori risorse al settore. I media, sempre alla caccia delle responsabilità, hanno steso un velo di omertà sugli effetti dei provvedimenti adottati dal governo giallo-verde in tema di anticipo del pensionamento.

 

A suo tempo furono espresse molte perplessità sull’introduzione di misure di anticipo dell’età di pensionamento perché avrebbero creato, nel pubblico impiego, dei seri problemi in alcuni settori strategici come la scuola, la giustizia e soprattutto la sanità. Ovviamente le preoccupazioni non tenevano nel minimo conto un disastro come quello in cui siamo incorsi. Una rivista specializzata ‘’Quotidianosanità.it’’ pubblicò una tabella (vedi di seguito) in cui venivano indicati quanti sarebbero stati gli aventi diritto ad accedere a quota 100 e ipotizzato il numero dei possibili aderenti, ripartiti per categoria.

 

 

Pare che questa previsione si sia rivelata troppo pessimista (oppure troppo ottimista se osservata da un diverso punto di vista). Ma i vuoti nei ranghi vi sono stati, con danni importanti, in una situazione di crisi gravissima.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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