Politically (in)correct – Lavoro: il futuro prossimo sta nel passato remoto

Bollettino ADAPT 10 maggio 2021, n. 18

 

“Niente sarà più come prima”. “La pandemia ha accelerato le trasformazioni del lavoro”. “Nuove tecnologie e partecipazione:  sono queste le sfide del futuro”.  Al di là dei gargarismi delle “frasi fatte” ci stanno le dichiarazioni di Mario Draghi, in Senato il 17 febbraio: “Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce”. Quest’osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.

 

Chi scrive aveva visto, in queste parole, “qualcosa di nuovo oggi nel sole”. Ora però sente spirare molta aria “di antico”, soprattutto nell’ambito non solo delle politiche, ma dello stesso diritto del lavoro. C’è un clima da restaurazione. Non basta sbandierare come smart working il lavoro a domicilio (effettuato con un pc al posto del telaio) dal tinello di casa, dividendosi lo spazio con i figli impegnati in una DaD de noantri; tutto ciò per dissimulare un arzillo procedere verso nuove forme di organizzazione del lavoro e dello studio. Il sistema produttivo è congelato da un blocco dei licenziamenti che con molta probabilità sarà ulteriormente prorogato: un blocco che dura da 15 mesi, una sorta di imponibile di manodopera per le aziende, ma a carico delle finanze pubbliche. Eppure avevamo ascoltato, sempre il 17 febbraio, parole diverse: “Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate – aggiunse Draghi – le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito”.

 

A fine marzo era atteso un segnale di discontinuità per il blocco dei licenziamenti individuali per motivi oggettivi (economici) e dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Per ora il blocco generalizzato è stato prorogato fino a tutto giugno; poi dovrebbe aprirsi una differenziazione nel senso che a beneficio delle aziende ancora destinatarie della Cig da covid-19, ai sensi del decreto Sostegni, è prevista una ulteriore proroga dal 1° luglio e fino al 31 ottobre 2021. I sindacati, intanto, hanno già messo le mani avanti: dapprima chiedendo un allineamento fino ad ottobre; poi a completamento dell’anno in corso. Sarebbe già un segnale di novità che il governo questa volta rispettasse le scadenze; ma non sarà facile, perché i sindacati si attaccheranno al loro “albero di Bertoldo”: la mancata riforma degli ammortizzatori sociali che il ministro Andrea Orlando continua a “covare in disparte”. Quanto meno, però, il governo dovrebbe interrompere l’inerzia delle organizzazioni sindacali che evitano di impegnarsi in progetti di riforma idonei ad affrontare le nuove sfide, per temporeggiare con le due stampelle del blocco e della Cig in deroga. En passant, abbiamo accennato alla riforma degli ammortizzatori sociali, indicata come intervento prioritario alla luce di quanto è avvenuto e sta avvenendo nel corso della pandemia. Quando si vuole fare bella figura si fa ricorso ad un aggettivo qualificativo – universale – da accostare al sostantivo; in questo caso ci accontentiamo dell’acronimo Cig.

 

La nuova cassa integrazione guadagni dovrà essere una prestazione di carattere universale (ovvero riconosciuta a tutti i lavoratori). Che cosa significa? Si vede che ci sono prestazioni più universali di altre, perché ci risultava che questo problema fosse già stato  affrontato e risolto, nella misura del possibile, nell’ambito del jobs act e segnatamente del dlgs Dlgs n. 148/2015: riforma degli ammortizzatori sociali durante il rapporto di lavoro (in vigore dal 24 settembre 2015), la cui disciplina prevedeva una razionalizzazione degli interventi di integrazione salariale con causalità chiare e durate certe, ampliava il ricorso ai contratti di solidarietà e, soprattutto, rafforzava ed estendeva,oltre quanto disposto dalla legge n.92/2012, l’istituzione dei fondi di solidarietà destinati a fornire (al posto della Cig) le integrazioni salariali a datori di lavoro e loro lavoratori non coperti dalla cassa integrazione. Soprattutto, le norme attuative del jobs act (legge delega n.183 del 2014) tracciavano un confine netto tra gli ammortizzatori sociali (tanto che si avviavano a scomparire la stessa indennità di mobilità e, appunto, la cig in deroga) durante il rapporto di lavoro e quelli dopo la sua cessazione (dlgs n.22/2015) con la revisione dell’Aspi (ora Naspi), l’introduzione della Dis.Col e dell’Asdi. Infine col dlgs n.23 del 2015 faceva il suo ingresso nell’ordinamento giuridico (per gli assunti dopo il 7 marzo di quell’anno) il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti contraddistinto da un sostanziale ridimensionamento delle fattispecie di reintegra giudiziaria nel caso di licenziamenti ingiustificati (un istituto che si affiancava al nuovo articolo 18 novellato dalla legge n.92/2012. Tutto ciò premesso, è possibile conoscere che cosa non va nella disciplina vigente al punto da rendere necessaria una nuova riforma degli ammortizzatori sociali? Lo stesso assegno di ricollocazione aveva trovato – grazie ad una normativa organica – un ruolo centrale per avvio di politiche attive, poi ridimensionato quando il legislatore ha ritenuto di poter affidare quella funzione ai corollari del RdC.

 

Senza voler fare processi sommari alle intenzioni non pare priva di argomenti  temere che il governo – con il lavoro ereditato dal precedente ministro Nunzia Catalfo – sia orientato ad investire più sugli ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro che non sulle salvaguardie a cessazione avvenuta in sinergia con le politiche di formazione e riconversione professionale in vista della ricerca di un nuovo lavoro. Un altro capitolo da aprire è quello della giurisprudenza costituzionale che sembra aver preso di mira la nuova disciplina del licenziamento, privandola di una delle sue principali convenienze: la certezza dei costi del recesso ritenuto ingiustificato, il cui ammontare è stato slegato dall’anzianità di servizio ed affidato alla discrezionalità del giudice.

 

Da ultimo (ma è la questione più seria perché riguarda le regole costitutive dell’ordinamento intersindacale e delle relazioni industriali), a ridosso del dibattito sul salario minimo ha ripreso piede il tema dell’efficacia erga omnes del contratto nazionale di categoria. Gli osservatori più faciloni pensano di dribblare l’articolo 39 Cost.  appoggiandosi all’articolo 36. I più avvertiti si rendono conto che è inevitabile passare dall’articolo 39 e propongono delle modifiche. A quanto pare, nessuno si è posta la domanda chiave: non stiamo, con tutta questo lavorio, rimettendo al centro delle relazioni industriali il contratto nazionale di categoria alla faccia dei <discorsi della domenica> sulla contrattazione di prossimità? Chi c’era il 5 agosto 2011 ricorderà la  lettera al governo italiano con firma in calce di Mario Draghi (e di Jean-Claude Trichet) si raccomandava con tono perentorio quanto segue: “C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione”. Altri tempi? Ecco perché siamo sempre più convinti che l’unica misura in grado di rimettere in moto il sistema alla ricerca di un nuovo equilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione di prossimità potrebbe essere l’istituzione del salario minimo legale che, a questo punto diverrebbe un minimo comun denominatore   per ogni tipologia di rapporti di lavoro.

 

Quanto alla contrattazione aziendale o di prossimità le procedure per conferire loro efficacia erga omnes sono previste dal benemerito articolo 8 della legge n. 148 del 2011. Non a caso la norma è successiva – sia pure di pochi giorni – alla lettera del 5 agosto che – come abbiamo già osservato – rivolse una particolare raccomandazione alla contrattazione di prossimità.

Volendo ci sarebbe anche l’enigma delle pensioni. Ma perché farci del male tutto in una volta? Non mancheranno altre occasioni.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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