Politically (in)correct – L’8 settembre delle pensioni

Bollettino ADAPT 24 agosto 2020, n. 30

 

L’8 settembre (una data che porta sfortuna per quanto avvenne in quel giorno nel lontano 1943) dovrebbe riprendere il confronto tra il ministro Nunzia Catalfo e le confederazioni sindacali in materia di pensioni, con l’obiettivo comune di ‘’superare’’ la riforma Fornero. Prima del lockdown erano state illustrate le rispettive posizioni (anche se, per il governo, si era fatto avanti l’onnipresente presidente dell’Inps). A parte i fronzoli e le piccole differenze sui requisiti dell’età pensionabile e della anzianità contributiva, la differenza sostanziale sembrava essere una sola: se nel caso di pensionamento anticipato il calcolo – come proponeva Tridico – dovesse essere interamente in regime contributivo o se la parte soggetta al retributivo dovesse conservare le modalità ora vigenti nel sistema misto. Durante la tempesta perfetta della pandemia c’era stata una pausa forzata del negoziato (magari caratterizzata da qualche bordata polemica tra le forze politiche sul destino di quota 100 nell’ambito delle condizionalità connesse all’accesso ai finanziamenti del Recovery Fund). Poi nel mese di luglio è ripartito, baldanzoso, il confronto a conclusione del quale sono state effettuate, da parte dei sindacati, dichiarazioni lusinghiere. ‘’Un inizio importante, abbiamo dato il via ad una trattativa seria che va nella direzione di rispondere alla nostra piattaforma. Non vogliamo qualche aggiustamento di qualche parte della legge Fornero, vogliamo una vera e propria revisione della legge che dia stabilità al sistema nei prossimi anni e che sia in grado di dare risposte a partire dai giovani e dalle donne, che sono le più penalizzate in questi anni”. Così il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, al termine dell’incontro sulla previdenza tra i sindacati confederali e il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo. La linea delle confederazioni l’ha spiegata Roberto Ghiselli, il segretario della Cgil con delega alle politiche sociali. ‘’Le nostre principali proposte sono in realtà note ai più e ricomprendono: possibilità di andare in pensione dopo 62 anni a scelta del lavoratore o con 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Teniamo conto – ha aggiunto Ghiselli – che questa flessibilità in uscita è sempre più sostenibile finanziariamente perché, da ora, in poi i futuri pensionati o saranno integralmente nel sistema contributivo o comunque la componente contributiva sarà largamente prevalente nel loro paniere previdenziale. Poi crediamo – ha proseguito – che le donne e chi ha fatto lavori di cura, come anche chi ha fatto lavori più pesanti, debbano poter andare in pensione prima o, a loro scelta, possano contare su un sistema di calcolo che consenta loro una pensione più alta. Inoltre crediamo fondamentale pensare ai giovani e a chi ha condizioni di lavoro povero, discontinuo o con bassa contribuzione, ed in questo caso chiediamo una “pensione contributiva di garanzia” che aiuti, solidalmente, chi ha avuto più difficoltà nel suo percorso lavorativo affinché possa raggiungere ugualmente una pensione almeno dignitosa”. Non occorre essere profondi conoscitori del sistema pensionistico per accorgersi che – se fossero accolte – queste proposte riporterebbero il sistema stesso non solo a prima del 2012 (quando entrò in vigore – praticamente in teoria – la riforma Fornero), ma ad un assetto addirittura vigente quando i governi ritennero di mettere mano ad un riordino. E’ vero che – andando avanti nel tempo – l’incremento delle quote calcolate col contributivo penalizza, nei fatti, sul piano economico, l’anticipo del pensionamento essendo i moltiplicatori dei montanti (i coefficienti di trasformazione) ragguagliati all’età a cui si accede alla quiescenza. Ma non ha molto senso privilegiare, in vista degli scenari demografici attesi, l’anticipo rispetto all’adeguatezza dei trattamenti e, soprattutto, è sbagliato e in contraddizione con i trend del mercato del lavoro, scambiare età anagrafiche ridotte con anzianità contributive abbastanza elevate, raggiungibili dalle coorti che vanno in quiescenza nei prossimi anni, ma non dalle nuove generazioni di lavoratori. In sostanza, la posizione dei sindacati rimane prigioniera di un mondo del lavoro in via di esaurimento quando finiranno i baby boomers. Intanto è possibile fare un bilancio degli effetti di quota 100. È ormai assodato che la deroga sperimentale – che scadrà alla fine del 2021 – non ha realizzato se non in minima parte quel turn over anziani/giovani per cui era stata adottata.  La più rilevante smentita ufficiale della narrazione degli aedi di ‘’quota 100’’ si trova nel Rapporto 2020 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica e riguarda la media della anzianità contributiva e quella dell’età anagrafica fatte valere dai percettori della pensione. ‘’ In realtà – è scritto – i soggetti che hanno usufruito dell’anticipo avendo effettivamente maturato i requisiti minimi di ‘’quota 100’’ (ovvero 62 anni di età e 38 anni di anzianità contributiva) sono stati poco più di 5 mila, ossia il 3 per cento del totale. L’uscita anticipata ha attratto principalmente coloro che – per anzianità contributiva – avevano la minima distanza dalla soglia prevista per l’uscita anticipata (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 e 10 mesi per le donne): circa la metà dei lavoratori uomini è andato in pensione con almeno 41 anni di anzianità; le donne con almeno 40 anni di anzianità risultano il 53 per cento del totale; oltre il 30 per cento ha almeno 41 anni di anzianità’’. Quanto all’età anagrafica ‘’la lettura dei dati sulle pensioni accolte, disaggregati in base all’età, mostra un generale addensamento sui 63 anni (circa il 27%). I pensionati con Quota 100 con almeno 66 anni di età (e quindi prossimi al pensionamento di vecchiaia di 67 anni di età) sono mediamente il 14% del complesso. Questo sembra confermare – sostiene la Corte – che la discriminante più importante, nell’adesione a ‘’quota 100’’, sia stata l’anzianità contributiva piuttosto che l’età’’. Questi esiti sono facilmente spiegabili: essendo i 62 anni di età e i 38 anni di contributi criteri rigidi e concorrenti, è capitato che molti interessati fossero in grado di far valere il requisito contributivo prima di aver compiuto 62 anni oppure molti a questa età non avevano ancora maturato 38 anni di anzianità di servizio. Un’ultima notazione riguarda l’iniquità di genere del provvedimento. Nel triennio 2006-2018, le pensioni di anzianità liquidate presentavano, fra i lavoratori dipendenti del settore privato, un rapporto di una donna ogni tre pensionati; con ‘’quota 100’’ il rapporto è risultato di una donna ogni sei pensionamenti. Un’altra sorpresa riguarda il numero dei soggetti che si sono avvalsi di questa ‘’uscita di sicurezza’’: sono stati meno di quelli previsti. Il che ha scatenato una ridda di ipotesi sui motivi del desencanto, dimenticando ciò che prevede la norma ovvero che: ‘’Il diritto conseguito entro il 31 dicembre 2021 puo’ essere esercitato anche  successivamente  alla  predetta  data, ferme restando le disposizioni del presente articolo’’. Dunque, gli interessati possono regolarsi e compiere o rinviare le proprie decisioni in tutta tranquillità.  Sarà comunque opportuno dare un’occhiata alle statistiche. La Relazione tecnica predisposta per il decreto legge n. 4 del 2019 prevedeva, nell’arco del triennio della sperimentazione un maggior numero di pensioni di oltre 900mila unità (Tab.1).

 

1. Maggior numero di pensioni a fine anno (in migliaia) Dipendenti privati Lavoratori autonomi Dipendenti pubblici Totale
2019 102 88 100 290
2020 113 102 112 327
2021 128 112 116 356

 

Il numero cumulato delle pensioni accolte a tutto il 10 agosto di quest’anno è riportato di seguito.

Numero Accolte

Autonomi                                  47.241
Dipendenti privati                               110.353
Dipendenti pubblici                                  72.183
Totale                               229.777 

 

Segue una valutazione degli oneri fino al 2030 (si tiene conto anche del numero di soggetti che, pur avendo maturato i requisiti entro le scadenze previste, sceglieranno di avvalersi del diritto successivamente).

Anno Autonomi Dipendenti privati Dipendenti pubblici Totale
2019                       347.221.347  

1.094.289.070

                      348.373.055                   1.789.883.472
2020                       637.561.209  

2.220.956.074

                  1.641.321.115                   4.499.838.398
2021                       457.349.090  

1.588.523.794

                  1.131.997.465                   3.177.870.349
2022                       252.746.857                       869.020.350                       648.213.760                   1.769.980.967
2023                       131.217.797                       451.654.405                       273.093.454                       855.965.656
2024                         36.822.469                       130.943.023                         67.461.783                       235.227.275
2025                            4.191.029                         16.533.650                            8.661.030                         29.385.709
2026                                           –                                  16.665                                  41.387                                  58.052
2027                                           –                                           –                                  21.953                                  21.953
2028                                           –                                           –                                  21.953                                  21.953
2029                                           –                                           –                                  21.953                                  21.953
2030                                           –                                           –                                  21.953                                  21.953

 

Molto indicativo l’andamento delle domande.

 

In conclusione, alla luce delle prospettive che le linee in campo – sia del governo che dei sindacati – consentono di intravvedere, la data dell’8 settembre (che nella storia del Paese rappresenta l’immagine cupa e drammatica della irresponsabilità delle istituzioni) può rivelarsi una scelta non casuale.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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