Politically (in)correct – Il terzo lato del triangolo: la forma-sindacato

Arrivato alla mia età da reduce di una lunga esistenza trascorsa “là dove tuona il cannone”, mi sembra di osservare il passato dall’alto di una torre, riuscendo a prolungare lo sguardo fino ad un orizzonte lontano e a distinguere con maggiore nettezza e comprensione gli eventi che si affollano intorno al falò dei ricordi.  Ed è la memoria di ciò che è stato a farmi intuire ciò che sarebbe necessario nel presente e nel futuro. Ovviamente, non si tratta di ripristinare antiche soluzioni di problemi di altri tempi, ma di capire la tipologia e la qualità delle trasformazioni indispensabili per affrontare, non impreparati, le imboscate della storia.

 

Nella vicenda delle relazioni industriali, ad esempio, si parla molto di nuove regole che dovrebbero prendere il posto di quelle ritenute superate e non più adeguate. Regole che riguardano la struttura della contrattazione collettiva, della rappresentanza e della rappresentatività, delle stesse politiche rivendicative. Si è portati a dimenticare, però, che il triangolo, per essere compiuto, ha bisogno di un terzo lato, che, nel caso di specie, si chiama forma-sindacato. Che cosa si intende con tale espressione? Niente di più o di meno del concetto ribadito nel primo comma dell’art. 39 Cost. (“l’organizzazione sindacale è libera”), dove la parola organizzazione non sta ad indicare soltanto il soggetto collettivo (che potremmo chiamare “sindacato-istituzione”), ma il suo modo di essere, di articolare la propria vita associativa, di darsi delle strutture, di predisporre le risorse materiali ed umane da utilizzare per il raggiungimento dei suoi scopi, di scegliere gli interessi che intende rappresentare e i lavoratori che li esprimono.

 

A chi scrive è capitato di assistere da vicino, a cavallo tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso, alle conseguenze – si potrebbero definire “fisiche” – indotte sia dai mutamenti profondi del contesto socio-economico del Paese (il passaggio da una società agricola ad una industriale), sia dalle scelte strategiche che il sindacato – sia pure con un colpevole ritardo – fu costretto a compiere per interpretare quei cambiamenti. Nel giro di un decennio le organizzazioni sindacali furono chiamate ad esibirsi in un paio di salti mortali: dapprima, dopo l’accordo interconfederale sul conglobamento del 1954, ad avviare la contrattazione nazionale di categoria dopo un lungo periodo in cui era prevalsa, anche per gli aspetti retributivi, la contrattazione interconfederale per grandi settori; poi, a dare impulso alla svolta della contrattazione aziendale. L’assetto vigente in agricoltura – lo è stato per molti decenni – era invece la contrattazione territoriale, mentre a livello nazionale era previsto un Patto che costituiva soltanto un punto di riferimento per il livello decentrato.

 

La svolta industrialista/manifatturiera determinò anche dei cambiamenti per quanto riguardava il sindacato-istituzione. Vennero rovesciati i rapporti di potere all’interno dell’organizzazione, nel senso che la quota più rilevante delle energie e delle risorse (ovvero la ripartizione delle entrate del tesseramento e della contribuzione associativa, in verità molto precaria perché affidata alla rete dei collettori) fu attribuita alle strutture di categoria. In sostanza, negli apparati delle federazioni provinciali entrarono i funzionari delle dismesse Camere del lavoro comunali, acquisendo così dei compiti più specifici, legati alle realtà produttive presenti nel territorio.

 

Ma il vero cimento iniziò in parallelo con l’avvio – contrastato – della contrattazione articolata a livello d’azienda. Secondo una stima della Cisl, tra il maggio del 1953 e il mese corrispondente del 1957, furono sottoscritti 748 accordi di stabilimento o di gruppo che riguardavano circa 400mila lavoratori in ben 569 stabilimenti (in maggioranza metalmeccanici, poi chimici, tessili e servizi pubblici). I principali istituti contrattati erano indennità salariali e premi di produzione o di produttività (facevano il loro ingresso nella storia delle relazioni industriali talune forme retributive innovative che eserciteranno un ruolo importantissimo nella contrattazione articolata dei primi anni ‘60).

 

Ma quale doveva essere l’agente contrattuale a livello aziendale? Nelle imprese operava la Commissione interna (C.I.), un organismo eletto a suffragio universale su liste delle organizzazioni sindacali in rappresentanza di tutti i lavoratori (alcuni posti erano riservati agli impiegati). L’accordo Buozzi-Mazzini del 1943 era stato rinegoziato, a livello interconfederale, nel 1947 e nel 1953. In quest’ultimo passaggio, alla C.I. venne sottratto il potere contrattuale a livello d’azienda che le era stato attribuito nel 1947. Un’operazione questa, che oggi può apparire singolare, ma che allora era stata condivisa da tutti i principali protagonisti. A partire dalla Confindustria, per la quale la contrattazione nazionale doveva avere un ruolo esclusivo, per cui, nel posto di lavoro restava spazio soltanto per la corretta applicazione del contratto nazionale (si parlava al massimo di ‘’contrattazione applicativa’’), affidata, appunto, con riguardo alla rappresentanza dei dipendenti nelle eventuali controversie, alle C.I.A  maggior ragione le imprese diffidavano anche del sindacato territoriale (non a caso è a questa istanza esterna che,  negli anni successivi, la legislazione di sostegno – a partire dalla Statuto dei lavoratori del 1970 – riconoscerà la titolarità dei c.d. diritti sindacali).

 

La Cgil era molto legata all’istituto della Commissione interna (che le consentiva di svolgere un ruolo determinante in un organismo forzatamente unitario), ma conservava le sue perplessità nei confronti di una possibile deriva aziendalista. Tanto che, al massimo, la Cgil si limitò a dar vita ai “comitati sindacali di fabbrica” composti dai suoi attivisti, continuando a investire, però, i suoi quadri migliori nelle Commissioni interne.

 

La Cisl aveva almeno due ordini di ragioni per diffidare delle C.I. In primo luogo, negli anni delle maggiori polemiche, non accettava l’unità d’azione con la Cgil che le veniva imposta nell’ambito di quell’organismo rappresentativo. Inoltre, la sua elaborazione in materia di contrattazione aziendale l’aveva portata a prefigurare un ruolo specifico del sindacato all’interno degli stabilimenti: la sezione aziendale sindacale (S.A.S.). La Uil valorizzava le Commissioni interne perché, a suo dire, nelle elezioni era in grado di intercettare il voto di una sorta di “elettorato d’opinione” non disponibile ad impegnarsi attivamente nel sindacato.  Non va dimenticato, tuttavia, che – in tempi difficili come quelli di allora – essere o essere stato componente di Commissione interna assicurava una tutela ai lavoratori contro i licenziamenti di rappresaglia, in quanto, per poter risolvere il rapporto di lavoro i datori dovevano ottenere il nulla-osta da parte del sindacato interessato.

 

Poiché la Confindustria era assolutamente contraria ad ammettere la presenza e a riconoscere l’agibilità ad un’istanza sindacale sul posto di lavoro,  le prime esperienze di contrattazione aziendale, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, si avvalsero di quello che venne chiamato il ‘ruolo suppletivo’ delle Commissioni interne, nel senso che toccò spesso a loro di sottoscrivere gli accordi, dal momento che le imprese consideravano questa evenienza come una specie di “male minore” rispetto al dover riconoscere tale potere al sindacato interno od esterno al posto di lavoro. Gran parte delle intese, in quegli anni, non formava oggetto di esplicita contrattazione, ma apparteneva al novero dei gentlement’s agreements e degli accordi verbali, specie nelle aziende più piccole.

 

Come sempre accade, quando si rifiutano le soluzioni ragionevoli, si finisce per essere travolti da istanze più radicali. Le Sezioni sindacali aziendali (nonostante il riconoscimento del diritto di costituire RSA nelle imprese, garantito dalla Statuto del 1970) cedettero ben presto il passo, nell’industria dopo l’autunno caldo, ai consigli di fabbrica (cdf) come struttura in cui confluivano i c.d. delegati di gruppo omogeneo. Al di là del suo evidente supporto ideologico evocativo di antichi scenari, questa scelta organizzativa rappresentava per i lavoratori un’adeguata risposta – conflittuale – all’organizzazione tayloristica del lavoro. L’operaio-massa era ritenuto il protagonista della storia, mentre agli impiegati e ai tecnici non si chiedeva di aderire al sindacato per difendere con equità e solidarietà la propria condizione professionale, ma per negarla accettando, in modo fideistico, un egualitarismo settario, punitivo nei loro confronti.

 

Talune rivendicazioni in voga in quei tempi (si pensi per tutte la prassi degli aumenti in cifra fissa uguali per tutti, un vero e proprio assurdo sindacale) corrispondevano a ben precisi interessi di quei pezzi di classe lavoratrice  che avevano condotto e vinto (con il favore dei vertici sindacali di allora) una battaglia interna al mondo del lavoro, ottenendo per sé il riconoscimento di essere la “classe generale”, le cui rivendicazioni non costituivano problemi di una parte della classe lavoratrice da mediare con quelle di altre, ma rappresentavano la linea generale alla quale tutti, anche chi aveva altri interessi, erano tenuti a sottostare.

 

Si innestava così una teoria dei valori, in base alla quale taluni interessi meritavano attenzione e risposte concrete, altri no. Lo stesso meccanismo decisionale (il delegato di gruppo omogeneo, eletto con logica maggioritaria e totalitaria) era pensato apposta ad immagine e somiglianza di una particolare organizzazione del lavoro (la catena di montaggio di Mirafiori) e per promuovere un’egemonia di classe sul movimento: l’operaio di terzo livello doveva essere al centro del mondo del lavoro, la coscienza antagonista del capitalismo, colui che – essendo esposto alla fase più alta della razionalizzazione padronale – la rifiutava e la contestava.

 

Non si immaginava, allora, che il superamento dell’odiato taylorismo avrebbe comportato pure la fine di quella mitica figura di lavoratore ed aperto l’organizzazione produttiva a forme sempre più diffuse di outsourcing. Giusta o sbagliata che fosse, quella impostazione politica teneva insieme tutto: i soggetti di riferimento, le scelte rivendicative e le strutture organizzative. Non è più stato così. Dopo l’eclissi di quel mondo i sindacati si sono risolti a saccheggiare le grandi riserve del pubblico impiego e dei pensionati, scambiando influenza e potere organizzativo con l’attribuzione a questi settori di una priorità d’iniziativa politica (si pensi al caso della previdenza). Non sono stati in grado di compiere il salto nel terziario che nel frattempo era divenuto il comparto in cui cresceva l’occupazione e spuntavano nuove tipologie di lavoro.

 

A pensarci bene quella del lavoro a tempo indeterminato (che è tuttora la forma prevalente di occupazione) è anche la difesa di un certo modello di organizzazione, di approccio e di rappresentanza a cui il sindacato non ha voluto rinunciare, perché non è in grado di fare altro se non classificare nella mitologia del precariato tutto ciò che non risponde ai canoni tradizionali. Non ha importanza se la struttura non intercetta il flusso e il diffondersi dei nuovi lavori. È Maometto che deve andare alla montagna.

 

Eppure, raccogliere attorno a sé la galassia dei titolari di contratti atipici inventando il modo di rispondere ai loro problemi non è certamente più difficile che convincere a scioperare le operaie tessili quando a tenere l’ordine nelle piazze non erano corpi di Polizia sindacalizzati, ma le truppe di Bava Beccaris (colui che “gli affamati col piombo sfamò”). Non è altrettanto più difficile che organizzare le famiglie mezzadrili raccontate né “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi. Il fatto è che il sindacato resta quello che “c’era una volta”. Quanto ha scritto il grande storico Eric Hobsbawm ne “Il secolo breve” vale anche per il sindacato stesso: “Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa ad una società mutata, è il buio”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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