Politically (in)correct – Il lavoro nella gig economy non è materia del diritto penale

Bollettino ADAPT 8 marzo 2021, n. 9

 

Commentando in un editoriale telegrafico sul suo sito, il singolare comunicato stampa in cui la Procura di Milano dissertava a proposito della natura giuridica del rapporto di lavoro dei rider, Pietro Ichino osservava giustamente che: “Il platform work pone una questione molto complessa di adattamento del diritto del lavoro all’evoluzione tecnologica, che non può essere risolta con il puro e semplice assoggettamento della nuova realtà alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato del secolo scorso: questo assoggettamento, se operato in modo meccanico, mette fuori-legge (per questo se ne occupa una Procura? N.d.R.) un intero modello di organizzazione del lavoro reso possibile dalle nuove tecnologie, che invece richiede disciplina adatta alle sue caratteristiche”.

 

In quegli stessi giorni il quotidiano on line Il Diario del lavoro organizzava la presentazione di un Rapporto dell’OIL (I sindacati in transizione, a cura di Jelle Visser dell’Università di Amsterdam) che affronta, con una visione planetaria, il ruolo e l’azione dei sindacati in relazione ai principali aspetti delle trasformazioni dell’economia e del lavoro. Tra questi temi non poteva mancare la questione del lavoro nella Gig economy. Nonostante le sue dimensioni ancora modeste – osserva il Rapporto – l’economia delle piattaforme è cresciuta in modo esponenziale in molti paesi e solleva una serie di questioni relative al diritto al lavoro e alla protezione sociale, all’organizzazione sindacale e alla contrattazione collettiva, tanto da guadagnare un posto centrale nelle recenti attività dell’OIL.

 

Alcuni studi del 2016 hanno stimato che, negli Stati Uniti, la quota dei lavoratori impiegati attraverso le piattaforme digitali come Uber o TaskRabbit è pari allo 0,5 per cento, includendo nell’analisi tanto i lavori principali quanto quelli secondari.  Secondo altre stime compiute, nel 2018, in 14 paesi europei, il 2 per cento medio della popolazione in età lavorativa è occupata parzialmente o totalmente online nella cosiddetta gig economy. Nella maggior parte dei casi, i lavori svolti nel settore delle piattaforme non costituiscono l’occupazione principale dei lavoratori. Tuttavia, secondo l’OIL, l’aspetto probabilmente più rilevante è il tasso di crescita del settore. È stato stimato che lo 0,6 per cento della popolazione statunitense in età lavorativa era impiegata in 30 piattaforme digitali nel 2015, ma che il numero di lavoratori che percepiscono un reddito da queste piattaforme è raddoppiato ogni mese dall’autunno di quello stesso anno. Uber, la più grande piattaforma di lavoro a chiamata (lavoro on demand), è cresciuta a un ritmo rapidissimo. Dopo essere stata lanciata nel 2010, il numero degli autisti partner di Uber è quasi raddoppiato ogni sei mesi tra la metà del 2012 e la fine del 2015. Questo tipo di lavoro – secondo il Rapporto – è destinato ad aumentare, sia che si tratti della principale fonte di reddito che di un secondo lavoro, soprattutto tra i giovani. Il settore, infatti, ha ancora moltissime opportunità di crescita. Uber, ad esempio, si sta espandendo nel settore delle consegne di pasti a domicilio (food delivery) con Uber Eats, in concorrenza con Deliveroo e Easy-Eat.

 

Le principali aziende di questo settore si stanno sviluppando in Cina, ed è facile immaginare – secondo l’OIL – un futuro in cui cucinare cesserà di far parte della nostra quotidianità, mentre questi servizi saranno forniti da grandi imprese, che prenderanno ordini via internet consegnandoli a domicilio. La diffusione degli intermediari digitali, ossia le piattaforme come Uber, Deliveroo, TaskRabbit, ClickWork o Fiverr, sta trasformando radicalmente i rapporti di lavoro. Alcune aziende sono specializzate in attività che possono essere svolte da remoto da qualsiasi parte del mondo (ad esempio, editing o progettazione grafica); altre si rivolgono ad aree specifiche o richiedono la presenza fisica del lavoratore (food delivery, servizi di pulizia e di taxi o fotografia). Queste forme di lavoro – prosegue il Rapporto – consentono ai lavoratori di agire in modo relativamente autonomo al di fuori delle strutture tradizionali stabilite dal diritto del lavoro e senza una chiara definizione dell’orario di lavoro, dei salari minimi o degli obblighi.

 

Dall’altra parte, i datori di lavoro non devono investire nei luoghi di lavoro né fornire strumenti, mentre, nelle reti on line, le prestazioni possono essere facilmente tracciabili e il lavoratore può essere sottoposto a supervisione digitale. La tappa successiva dello sviluppo del mercato lavoro digitale a livello mondiale potrebbe essere la nascita di piattaforme specializzate in lavori che possono essere svolti a distanza, suddivisi in una serie di compiti o incarichi. Questa nuova fase – è intrigante il paragone contenuto nel Rapporto – può essere considerata una nuova forma di globalizzazione nella sua massima espressione. In un ambiente di crowdsourcing online, in cui un lavoro può essere affidato in outsourcing a qualsiasi lavoratore potenzialmente connesso da ogni parte del mondo, è possibile andare incontro a conflitti tra le diverse legislazioni nazionali sul lavoro oppure è frequente che i lavoratori abituati a ricevere salari elevati si ritrovino a competere direttamente con quelli abituati a lavorare in condizioni non dignitose.

 

I potenziali effetti destabilizzatori delle piattaforme sui mercati del lavoro sono notevoli e superano la loro importanza in quanto fonte di occupazione. Si è tentato in varie occasioni di regolamentare il lavoro delle piattaforme attraverso i sindacati, le cooperative, i comitati aziendali e le opportunità offerte dal web, ma siamo solo all’inizio e c’è ancora molto da fare. I sostenitori del lavoro delle piattaforme affermano che esso genera vantaggi economici per i gruppi socialmente emarginati, tra cui i disoccupati, i rifugiati o chi si trova isolato geograficamente. Tuttavia, lavorare nella gig economy come principale fonte di reddito – sottolinea l’OIL – non garantisce ai lavoratori un salario dignitoso, ferie e congedi retribuiti, il versamento dei contributi pensionistici, l’accesso ad assicurazioni o a regimi sanitari, la regolamentazione dell’orario di lavoro e la sicurezza del reddito.

 

La maggior parte delle piattaforme inquadra, infatti, i prestatori come lavoratori autonomi, ai quali, in molte giurisdizioni, non viene riconosciuto il diritto di costituire e aderire ad organizzazioni sindacali e di partecipare alla contrattazione collettiva. Anche laddove tali diritti sono riconosciuti, spesso è difficile applicarli a causa della prevalenza di forme di lavoro atipiche. Pertanto, i lavoratori delle piattaforme devono affrontare diverse sfide nel tentativo di far sentire la propria voce, organizzare una rappresentanza collettiva e stabilire regole del lavoro permanenti e applicabili. Ecco perché – come scrive Ichino nell’editoriale citato – la strada migliore (….) è quella della contrattazione collettiva: per questo credo che almeno Cisl e Uil, se la Cgil non è disposta a entrare in questo ordine di idee, dovrebbero chiedere di riaprire con Assodelivery il discorso sul contratto collettivo nazionale, con l’intendimento di perfezionarlo. Basterebbe introdurvi una ragionevole disciplina della malattia e del recesso. Per non soffocare sul nascere questa pianta che, se ben coltivata – conclude Ichino – può dare frutti molto buoni, contribuendo al superamento di strozzature e chiusure del mercato del lavoro caratteristiche del sistema tradizionale. Dubito che possa, invece, risolvere correttamente il problema un intervento legislativo del tipo del decreto Di Maio 2019. Ma sono certo – questo è il tocco finale del giuslavorista – che non può risolverlo un giudice penale’’. Ci permettiamo di aggiungere: tanto meno una Procura.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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