Politically (in)correct – Governo Conte 2: incipit vita nova?

Bollettino ADAPT 9 settembre 2019, n. 31

 

È fatta. Il Governo Conte 2, già vivo dopo il giuramento dei ministri, si appresta ad essere anche vitale attraverso il voto di fiducia di ambedue le Camere. La mia particolare soddisfazione determinata dall’autoesclusione dal potere (per essersi attorcigliato in una catena di errori) di Matteo Salvini, non mi impedisce di vedere i limiti e l’improvvisazione della nuova esperienza. Infatti, che l’alleanza giallo-rossa sollevi dubbi e ponga interrogativi è vero (anche se è un fatto politico accertato e significativo che il M5S sia stato determinante nella elezione di Ursula Von der Leyen).  Che molti parti del programma sembrino dettate da Greta Thunberg è altrettanto vero. Poi, come ha fatto notare il Foglio, qualche autorevole incarico ministeriale consente di rivivere la storia del cavallo di Caligola (ma abbiamo rischiato di averlo come premier se fossero state accolte le lusinghe del Capitano per rientrare dalla finestra dopo essere scappato dalla porta).

 

Tutto ciò premesso, è mia convinzione che le possibili critiche al nuovo esecutivo, nonché i rischi che i nuovi alleati corrono, siano giustificati da una vera e propria “svolta” che riposiziona – diversamente da prima –  l’Italia sullo scenario europeo e mondiale. Il Paese-avanguardia (persino isolata) del sovranpopulismo cambia campo; continua la guerra, ma dall’altra parte. È trasformismo? Non è un problema che deve porsi un avversario del precedente governo. Nel documento programmatico vengono indicati due “pilatri” della politica nazionale: l’alleanza euro-atlantica e l’integrazione europea. E a garanzia di questa nuova prospettiva è disposta una linea di comando coi fiocchi: dal Quirinale a Palazzo Chigi, passando per un nuovo titolare degli Affari europei (al posto di un leghista doc), per arrivare a Roberto Gualtieri al MEF (che in Europa è come un topo nel formaggio) e salire fino alla Commissione di Bruxelles dove l’Italia sarà rappresentata da Paolo Gentiloni. Un mese fa, se avessi preconizzato un assetto come l’attuale, mi avrebbero dato del visionario.

 

Essendo interessato alle politiche sociali e del lavoro non mi è sfuggito che nel programma sono più importanti i temi che mancano rispetto a quelli contenuti all’interno dei 29 punti (quelli del contratto giallo-verde erano 30, mentre il programma elettorale dell’Unione che portò al secondo governo Prodi   era di ben 281 pagine). Non vi è alcun accenno a quel monumento legislativo denominato jobs act che tanto ha contribuito al rinnovamento del diritto del lavoro. Non si parla, se non marginalmente, di pensioni (viene proposta una revisione dell’opzione donna che nel corso del 2019 ha interessato circa 13mila persone) viene proposto l’incremento di un fondo previdenziale pubblico che sia in grado di assicurare un trattamento di garanzia ai giovani. Tutto si può dire tranne che quest’ultima sia una proposta chiara. Probabilmente si tratta di un endorsment per l’idea lanciata dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di far entrare l’ente nella partita della previdenza privata a capitalizzazione.

 

Oltre a quota 100, anche il reddito di cittadinanza sembra diventato un lontano parente del nuovo governo. Sono invece richiamate, una per una, le questioni che agitavano il dibattito della precedente maggioranza, con tanto di iniziative legislative all’esame delle Commissioni.  Ecco come questi problemi – omettiamo quanto già anticipato – vengono messi in fila nel programma: “Occorre: “ridurre le tasse sul lavoro (cosiddetto “cuneo fiscale”), a totale vantaggio dei lavoratoriindividuare una retribuzione giusta (cosiddetto “salario minimo”), garantendo le tutele massime a beneficio dei lavoratori, anche attraverso il meccanismo dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentativeapprovare una legge sulla rappresentanza sindacale, sulla base di indici rigorosi; nel rispetto dei princìpi europei e nazionali a tutela della concorrenza, individuare il giusto compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento in particolare a danno dei giovani professionisti, anche a tutela del decoro della professione; realizzare un piano strategico di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, assicurando livelli elevati di sicurezza e di tutela della salute nei luoghi di lavoro, nonché un sistema di efficiente vigilanza, corredato da un adeguato apparato sanzionatorio; introdurre una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni; sostenere l’imprenditorialità femminile; recepire le direttive europee sul congedo di paternità obbligatoria e sulla conciliazione tra lavoro e vita privata”.

 

Vediamo di approfondire. Ammesso e non concesso che sia possibile, attraverso una nuova interpretazione dell’articolo 36 Cost, riconoscere validità erga omnes ai contratti stipulati dalle organizzazioni storiche (riconoscendo ad essi la caratteristica di retribuzione proporzionale e sufficiente (riprenderemo il tema più avanti) – quale senso avrebbe istituire un salario minimo che farebbe saltare quella flessibilità insita nei contratti collettivi? Sulla questione del salario minimo il Centro Studi Itinerari previdenziali ha pubblicato recentemente un breve rapporto nel quale vengono rappresentati alcuni problemi. L’estensore del documento, Claudio Negro, prende le mosse dalle seguenti quattro domande:

 

  1. È un’operazione credibile o ci collocherebbe fuori dal contesto delle democrazie industriali?
  2. Avrebbe effetti concreti e misurabili sulle retribuzioni, e in quale quantità?
  3. Quale potrebbe essere la sua struttura e il suo ammontare?
  4. Tramite quali percorsi giuridici e politici potrebbe essere introdotto?

Dopo un’ampia panoramica internazionale Claudio Negro risponde alla prima domanda osservando che non vi sono indicazioni contrarie all’istituzione anche in Italia del salario minimo di legge.

Quanto alla seconda domanda la risposta è favorevole all’utilità del salario minimo. Incrociando i dati ISTAT su minimi tabellari e salari, si scopre, infatti, che circa il 10% dei lavoratori dipendenti riceve un salario orario mediamente del 20% in meno rispetto al minimo settoriale fissato per contratto. Vale a dire, a dati 2018, circa 2.300.000 persone sottoretribuite, la cui distribuzione non è omogenea né a livello territoriale né di dimensione aziendale.

 

Dimensione dell’impresa e percentuale di lavoratori sottopagati

Dimensione dell’impresa
% dipendenti sottopagati
< 10 dipendenti 18,79%
11–15 dipendenti 13,14%
16 –19 dipendenti 11,48%
20 –49 dipendenti 9,17%
50 –249 dipendenti 6,05%
> 249 dipendenti 3,99%

Secondo Itinerari previdenziali (ma la considerazione è largamente condivisa) la genesi di queste sottoretribuzioni va ricercata primariamente nel fiorire di una vera e propria “giungla contrattuale”: sono depositati al CNEL ben 868 Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro, 320 di più rispetto al 2012, di cui peraltro solo un terzo firmati da CGIL CISL e UIL. Anche a voler aggiungere a questi i Contratti stipulati da sindacati autonomi rispetto alle tre maggiori confederazioni, ma dotati di una vera base associativa e attori di pratiche sindacali “serie”, diventa evidente che sono comunque centinaia i CCNL che si possono definire di comodo, contratti che, pur formalmente legali, fissano condizioni salariali e normative al ribasso.

A quanto potrebbe ammontare un salario minimo? Secondo la nota in esame nel definire un valore accettabile occorre tener presente due esigenze. Da una parte che l’importo non sia troppo a ridosso delle retribuzioni contrattuali, altrimenti risulterebbe inefficace (incentiverebbe l’elusione, come infatti accade oggi con i minimi dei CCNL) o dannoso (buttando fuori mercato le imprese che non riescono oggi a rispettare i CCNL). Dall’altra, che non sia troppo inferiore, a rischio di incentivare il dumping contrattuale e la fuga dai CCNL regolari. Allo stesso tempo, va tenuto presente l’effetto distorsivo creato da minimi contrattuali che si applichino indifferentemente su tutto il territorio nazionale: considerati i ben noti diversi livelli di sviluppo tra le Regioni, il peso relativo dei minimi tabellari è diverso sia che li si metta in relazione al potere d’acquisto sia rispetto al salario mediano regionale. Si pone dunque un ulteriore problema nella determinazione del salario minimo: un livello ragionevole in Lombardia potrebbe essere fuori mercato in molte zone del Sud e, viceversa; un livello accettabile al Sud potrebbe essere irrisorio al Nord. Ragione per la quale, se si vuol fare un’operazione che abbia effetti reali sulle retribuzioni, sarebbe opportuno individuare un minimo orario medio per poi riparametrarlo per aree territoriali. Con tutte le cautele del caso, si potrebbe allora pensare ad un minimo orario compreso tra i 7 e gli 8 euro, muovendo dalla consapevolezza che più si superano gli 8 euro più si esce al di fuori degli standard europei. 

 

Quali sarebbero poi i percorsi giuridici per arrivare all’introduzione del salario minimo? Secondo Itinerari previdenziali si dovrebbe intervenire con un provvedimento legislativo che, lasciando libera la contrattazione tra le parti sociali, si limiti a fissare un livello minimo sotto il quale non si può scendere. La questione più delicata emersa nel dibattito ed affrontata, a mio avviso, con troppa faciloneria, riguarda le regole per rendere applicabili erga omnes i contratti collettivi. In questo modo si salverebbe la capra dei sindacati che continuerebbero a svolgere il loro ruolo e i cavoli dei lavoratori discontinui (come erano utili i voucher!) e di quelli privi di copertura contrattuale.

Dove casca l’asino in questa proposta? È costituzionalmente possibile disporre l’efficacia erga omnes dei contratti senza dare applicazione all’articolo 39 Cost. ma usando – come abbiamo ricordato prima – la scorciatoia dell’articolo 36 stabilendo per legge la corrispondenza tra la retribuzione proporzionata e sufficiente, ivi prevista, con quanto disposto dalla contrattazione collettiva? Staremo a vedere. Ormai anche le Corti Costituzionali non sono più quelle di una volta.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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