Politically (in)correct – Gli effetti della pandemia sulle imprese e l’occupazione

Bollettino ADAPT 26 aprile 2020, n. 17

 

Quali saranno gli effetti dei provvedimenti varati dal Governo come reazione (sarebbe meglio dire difesa) alla pandemia?  Le stime sul crollo del Pil fanno accapponare la pelle (si va da una previsione di -9 punti a valori più altri). La Confindustria ha espresso, attraverso il suo Centro Studi, una valutazione più articolata, sul presupposto che la quarantena termini a maggio (- 6% su base annua) a cui potrebbe aggiungersi (in decrescita) un ulteriore 0,75% per ogni mese in più di chiusura. Va da sé che molto dipenderà da quando e da come sarà disposta la c.d. fase 2.

 

E l’occupazione? Per ora si fanno delle previsioni catastrofiche, ma è doveroso attendere i dati.  Al momento, ha scritto l’UPB, in una Nota sulla congiuntura pubblicata il 21 aprile scorso, non si dispone di informazioni sul mercato del lavoro relative al periodo dell’emergenza sanitaria, la quale potrebbe rendere più complicata la stessa produzione delle statistiche ufficiali. Ad esempio, fa notare l’UPB, le misure di distanziamento sociale potrebbero incidere sulla raccolta dei dati della Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro, per la parte relativa alle prime interviste, effettuate presso il domicilio della famiglia.  Intanto, è bene ricordare che l’occupazione era in frenata e il ricorso alla Cassa integrazione guadagni in forte crescita già prima della emergenza sanitaria da COVID-19.  Il numero delle persone occupate nel secondo semestre del 2019 aveva rallentato fortemente (+0,2 per cento, da + 0,5 nei precedenti sei mesi), per la riduzione della componente relativa agli autonomi e la frenata dell’occupazione a tempo indeterminato, a fronte della graduale espansione della componente a termine. Nei mesi iniziali dell’anno in corso, prima che l’emergenza sanitaria dilagasse, gli occupati erano diminuiti (-0,4 per cento nel bimestre gennaio-febbraio rispetto al quarto trimestre del 2019), per effetto della caduta sia del numero dei dipendenti permanenti (-0,3 per cento, per la prima volta dal terzo trimestre del 2018) sia degli autonomi.

 

Ma è attendibile che Il blocco di una quota significativa della base produttiva, disposto fino al 3 maggio, si rifletta in una eccezionale riduzione delle ore lavorate nei mesi primaverili. Secondo stime dell’Istat, i provvedimenti di sospensione o riduzione dell’attività produttiva riguarderebbero il 51,3 per cento delle imprese e il 42,9 per cento degli addetti. Le imprese attuerebbero forme di riduzione dell’orario di lavoro sia attraverso lo smaltimento di ferie e di congedi parentali sia, in maggior misura, mediante il ricorso alla Cassa integrazione guadagni (CIG), estesa dal decreto legge “Cura Italia” a tutte le imprese, indipendentemente dal settore produttivo e dal numero di addetti.

 

Secondo le informazioni diffuse dall’INPS, le richieste per la CIG con causale “COVID-19” pervenute fino al 10 aprile riguardano circa 2,9 milioni di lavoratori mentre le istanze relative all’assegno ordinario coinvolgono circa 1,7 milioni di beneficiari; nessuna informazione è disponibile sulle domande pervenute per la CIG in deroga con causale COVID-19 che in prima battuta sono raccolte dalle Regioni e poi inviate all’INPS. Si stima, in base alla struttura dell’occupazione nei comparti interessati dalla sospensione o riduzione dell’attività produttiva, che il numero complessivo di ore autorizzate possa attestarsi su livelli ampiamente superiori rispetto ai valori massimi storicamente osservati su base mensile dalla crisi finanziaria del 2009 (per inciso, non si riesce a comprendere dove il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, abbia ricavato il dato di 6,7 milioni di lavoratori in CIG). L’utilizzo della CIG consente alle imprese di preservare la base occupazionale e quindi il suo potenziale, in modo da disporre delle risorse per la ripresa dell’attività quando i vincoli alla produzione saranno rimossi. E’ la medesima strategia portata avanti dal governo Berlusconi all’inizio della crisi del 2008: quella di potenziare con l’apporto di risorse e semplificare nelle procedure il ricorso alla CIG, anche in deroga, anziché implementare l’indennità di disoccupazione come chiedeva allora l’opposizione di sinistra (una strategia, quella del governo, che, secondo valutazioni di quei tempi, consentì di salvare almeno 700mila posti di lavoro).

 

La minore reattività dell’occupazione alla perdita di PIL risentirebbe – ricorda l’UPB – anche di effetti istituzionali, connessi al divieto (per due mesi a partire dal 17 marzo) per i datori di lavoro di avviare procedure di licenziamenti collettivi o individuali.  Ma c’è un passaggio delicato: l’occupazione potrebbe risentire dell’elevata utilizzazione di contratti a termine in scadenza nei mesi della crisi. Secondo studi compiuti nell’ambito di Bankitalia ricavati da informazioni riguardanti le Comunicazioni Obbligatorie si stima che il numero dei contratti a termine in scadenza nel primo semestre dell’anno in corso sia circa la metà di quelli mediamente attivati nel secondo semestre del 2019; è più che probabile che soltanto in misura estremamente limitata saranno trasformati in posizioni a tempo indeterminato.  Pertanto scatterà la tagliola dell’obbligo di inserire una causale per il rinnovo dopo i primi 12 mesi. Essendo questa tipologia contrattuale prevalentemente diffusa nei settori dei servizi, del commercio e del turismo – che sono quelli più duramente colpiti dalle misure di restrizione – è purtroppo normale pensare che l’attacco all’occupazione si concentrerà in prima battuta sul lavoro a termine, soprattutto se non saranno modificate – come sarebbe urgente fare – le norme capestro del c.d. decreto Dignità in tema di condizionalità. Nel periodo contrassegnato dall’emergenza sanitaria – riferisce l’UPB – il calo della partecipazione al mercato del lavoro sarebbe accentuato dai provvedimenti di distanziamento sociale poiché riducendo la mobilità rendono più costosa la ricerca attiva del lavoro, determinando un aumento del numero degli inattivi che potrebbe moderare l’aumento del tasso di disoccupazione.

 

Anche l’INAPP nel Policy Brief di aprile conferma, sia pure da un altro angolo di visuale, le stime dell’UPB (che del resto hanno una comune radice in quelle dell’Istat): le imprese dei settori privati, esclusa l’agricoltura, per le quali le misure di restrizione consentono la prosecuzione delle attività, assommano a circa 2 milioni 320 mila unità, corrispondenti a poco più della metà delle imprese attive (52,7%). Il comparto alimentare e i servizi di pubblica utilità (energia, elettricità, rifiuti ecc.) non hanno subito restrizioni, al pari dei servizi di trasporto, di informazione, dell’istruzione e della sanità e delle attività finanziare e assicurative. Più drammatico è il focus sulle Pmi. ‘’Le imprese artigiane, che hanno caratteristiche dimensionali e settoriali specifiche (previste per legge), risultano sospese – scrive l’INAPP – in misura superiore al totale (55,3%). La quota elevata di micro e di piccole imprese interessate dal fermo delle attività è preoccupante, dal momento che le aziende di dimensioni minori hanno generalmente una più bassa capacità di fronteggiare shock esogeni e inattesi che incidono in misura elevata sulla dinamica della domanda e sul fatturato. La quota di imprese sospese decresce quasi sistematicamente con la dimensione aziendale: a fronte di un’incidenza complessiva delle aziende la cui attività è stata interrotta pari al 47,3%, le imprese senza addetti risultano sospese in ragione del 66,7%, mentre solo il 33,8% delle grandi imprese, con oltre 250 addetti, risultano interessate dalle misure di restrizione. Il segmento delle piccole imprese dovrà quindi fronteggiare problemi maggiori rispetto al resto del sistema produttivo fino alla fase di riapertura, pur graduale, delle attività’’. Il dato più confortante è quello di conferma che la quarantena ha consentito delle deroghe significative, allo scopo di garantire ai cittadini i beni e i servizi necessari.

 

Secondo l’INAPP gli addetti delle imprese che operano nei settori rimasti attivi sono 9 milioni 817 mila, pari al 57,5% del totale degli addetti (poco più di 17 milioni); la quota di dipendenti attivi è lievemente superiore (59,7%) e raggiunge i 7 milioni 285 mila su un totale di 12 milioni 200 mila circa. La quota di addetti e dipendenti attivi nei diversi settori considerati si sovrappone solo parzialmente a quella delle imprese attive. Dei quasi 10 milioni di addetti attivi, 1 milione 337 mila operano nella manifattura, di cui 446 mila nel solo comparto alimentare. Nel commercio sono rimasti attivi circa 1 milione 800 mila addetti e circa 1 milione 150 mila nei trasporti. I dipendenti a tempo determinato coinvolti dalle misure di contenimento del contagio sono poco meno di 600 mila unità, occupati in prevalenza nel settore terziario (419 mila).

Come aveva sottolineato anche la Nota dell’UPB questi lavoratori sono impiegati in imprese che operano in settori per i quali è stata disposta la sospensione e risultano più di altri a rischio di perdita dell’occupazione. Inoltre circa 225 mila dipendenti a termine interessati dalla restrizione sono occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, dove il 92,9% delle imprese risulta sospeso e dove generalmente i rapporti di lavoro a termine hanno una durata estremamente ridotta. È verosimile che, in presenza del fermo dell’attività, una quota non indifferente di contratti a termine non sia rinnovata. Tanto più alla luce delle disposizioni del decreto Dignità per quanto riguarda l’obbligo delle causali.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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