Politically (in)correct – Gli ammortizzatori sociali devono favorire la mobilità del lavoro non l’agonia di posti fittizi

Bollettino ADAPT 30 agosto 2021, n. 29

 

Quando gli sarà possibile in un contesto di impegni straordinari occorrerà che Mario Draghi dedichi la sua attenzione e il suo senso pratico alle questioni del lavoro che – ad avviso di chi scrive – stanno prendendo una piega molto diversa da quella, innovativa, contenuta nel discorso programmatico svolto dal premier il 17 febbraio in occasione del voto di fiducia. Ricordiamo le parole del presidente. “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”.

 

Dopo aver sottolineato il ruolo determinante degli strumenti straordinari adottati anche attraverso il programma SURE e il costo pagato in particolare dai giovani per quanto riguarda l’occupazione, Draghi indicò direttamente le linee di una nuova politica del lavoro: “Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parto del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito”. C’era da presumere che queste fossero le linee generali del documento sulla riforma degli ammortizzatori presentato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando alle parti sociali alla fine di luglio. Purtroppo abbiamo dovuto constatare – leggendo le 6 pagine della nota – che la politica del lavoro dei mesi futuri – in cui si annuncia una robusta ripresa – rischia di essere condizionata dalla logica che ha sorretto – per circa 500 giorni –  il blocco dei licenziamenti e l’erogazione della cig in deroga.

 

In primo luogo, le proposte hanno il difetto di rendere strutturali le misure adottate in via straordinaria nella stagione del covid-19, estendendo la cig anche alle microaziende fino a 5 dipendenti e sostituendo l’intervento ordinario all’eccezionalità del ricorso alla cig in deroga (che verrebbe eliminata). L’estensione dovrebbe avvenire su base assicurativa, ma per i primi due anni la copertura sarà a carico della finanza pubblica. Un aspetto altrettanto grave emerge dall’invasione di campo da parte degli ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro rispetto a quelli che intervengono dopo la sua cessazione.  A segnalare questo straripamento sono le due nuove causali: prospettata cessazione dell’attività e liquidazione giudiziaria. Mentre le causali classiche (riorganizzazione, ristrutturazione, riconversione dell’azienda) presuppongono che un’impresa avvii processi di cambiamento e risanamento, alla fine dei quali essa rimane sul mercato con la medesima identità (e quindi si giustifica la continuità del rapporto di lavoro attraverso la Cigs per quei dipendenti che non dovessero finire in esubero) nelle due nuove causali si ha a che fare con una fase di transizione verso la cessazione dell’attività.

 

Di male in peggio, poi, la cassa integrazione straordinaria può essere chiesta anche per processi di transizione da parte di Pmi con meno di 15 dipendenti. È questa la “filosofia” della riforma: tenere, il più a lungo possibile, i lavoratori legati all’azienda accompagnandola in costanza di rapporto, ormai finto, fino alla certificazione del suo decesso, anziché potenziare le politiche attive del lavoro attraverso l’assegno di ricollocazione. Peraltro il governo ha portato a termine il primo tempo del PNRR – accompagnandolo con importanti riforme necessarie alla sua attuazione – acquisendo dalla Commissione europea la prima tranche dei finanziamenti.

 

In questo momento è decisiva l’analisi della fase che attraversa l’economia per avere chiaro il contesto in cui si colloca un intervento cruciale nel mercato del lavoro nel perseguimento di obiettivi di crescita e sviluppo. Ecco perché la riforma degli ammortizzatori sociali non può essere ritenuta un rimedio al superamento – da qui alla fine dell’anno – del blocco dei licenziamenti, rivolto a mantenere “con altri mezzi” la manodopera in esubero legata ad imprese ancorché prive di prospettive. È questa l’idea che si è radicata nelle politiche del lavoro attuate dal Conte 2, tanto che l’ex ministro Nunzia Catalfo non ha esitato a dichiarare che, in assenza di una riforma degli ammortizzatori sociali, si dovrebbe ripristinare il divieto dei licenziamenti.  Le stime dei tecnici ipotizzano costi per 6-7 miliardi, che salirebbero a 8 miliardi considerando anche gli interventi sull’indennità di disoccupazione, a fronte di coperture al momento assicurate solo per 1,5 miliardi dalla sospensione del cashback. Ma la linea è quella di Maurizio Landini: “Gli ammortizzatori devono essere la strada da scegliere prima di aprire procedure di riduzione del personale”. Non si tratterebbe più di usare quella strumentazione di sostegno al reddito in vista di una ripresa, in tempi più o meno lunghi in relazione ai processi di riorganizzazione e riconversione da affrontare. Gli ammortizzatori sociali dovrebbero essere usati anche per prolungare l’agonia di un sito produttivo, soltanto per mantenere la continuità giuridica di rapporti di lavoro in realtà già finiti. A pensarci bene è la linea che i sindacati portano avanti in quel gruppo di aziende che sono diventate, anche a livello mediatico, il segno di quanto è avvenuto e può ancora succedere dopo lo sblocco dei licenziamenti.

 

Per dirla con franchezza si sta pensando ad una riforma degli ammortizzatori sociali finalizzata a risolvere i problemi dei dipendenti delle imprese (in primis multinazionali) che vogliono chiudere, non di quelle che cercano manodopera da assumere per continuare a lavorare. Che questa sia la strategia di alcuni settori del governo lo si capisce anche dall’esame della bozza di decreto contro le delocalizzazioni. A stare alla individuazione delle aziende a cui si applicherebbero le nuove disposizione sembrerebbe un decreto ad hoc (mancherebbe solo l’indicazione delle ditte, altrimenti si potrebbe chiamare decreto Whirlpool o ancora meglio decreto Gkn). Ogni posto di lavoro è sacro. Ma il futuro prossimo dell’economia non passa da come finiranno quelle vertenze.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

Politically (in)correct – Gli ammortizzatori sociali devono favorire la mobilità del lavoro non l’agonia di posti fittizi