Politically (in)correct – Fondi pensione: alla ricerca di una mission perduta

È stato presentato, l’8 giugno scorso, dalla Covip (l’Autorità di vigilanza) la Relazione per l’anno 2016 sulla previdenza complementare.  Il settore – che è prossimo a festeggiare il primo quarto di secolo di una regolamentazione organica, mentre celebra quest’anno il decennale della riforma del TFR –   presenta un profilo ed una consistenza reali: le risorse accumulate alla fine dell’anno considerato ammontano a 151,3 miliardi (+ 7,8% rispetto all’anno precedente) e costituiscono il 9% del Pil e il 3,6% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.

 

Ma questi dati, come quelli che vedremo in seguito, se analizzati nella loro composizione, mettono in evidenza la gracilità del secondo pilastro a capitalizzazione: il 40% di tali risorse appartengono ai fondi preesistenti (rispetto alla riforma del 1993), mentre i fondi negoziali si accontentano del 30%, i PIP del 20%. Il resto rimane ai fondi aperti.

 

Anche sul versante delle adesioni, il quadro è meno positivo di quello che potrebbe sembrare di primo acchito. Se è vero infatti che il totale degli iscritti alla fine del 2016 era pari a 7,8 milioni di lavoratori (5,8 milioni dipendenti, 2 milioni autonomi), da questo dato vanno sottratte le adesioni multiple (ben 620mila); pertanto il numero effettivo si riduce a 7,2 milioni circa (27,8% delle forze di lavoro). Inoltre, quasi 2 milioni di iscritti non hanno versato, lo scorso anno, la contribuzione prevista; pertanto gli iscritti attivi si riducono al 25,6% sugli occupati. Trattandosi in prevalenza di lavoratori autonomi e mettendo questo numero di “renitenti” a confronto con l’insieme dei lavoratori indipendenti iscritti alle diverse forme complementari, si arriva a constatare che il settore del lavoro autonomo continua a rimanere marginale ed estraneo a questa esperienza. Il che è veramente singolare, dal momento che sono operative ed influenti organizzazioni di categoria che pure hanno tentato di dare vita ad iniziative le quali, però, non hanno mai attecchito o lo hanno fatto in misura assai ridotta.

 

L’altro “grande assente” è il pubblico impiego: ma in questo caso vi sono limiti normativi (nel senso che le regole non sono completamente allineate con quelle dei comparti privati) e soprattutto dei ritardi da parte della contrattazione collettiva che ha, in materia, un ruolo costitutivo.

 

Che sia carente l’azione di carattere collettivo risulta anche dai dati delle adesioni. Ben 2,9 milioni di lavoratori sono iscritti ai c.d. PIP “nuovi” (in numero di 78), ovvero ai piani previdenziali individuali sottoposti a recente istituzione e revisione normativa: si tratta, quindi, di previdenza complementare “fai da te”, gravata persino di maggiori costi di gestione.  Ciononostante continuano a registrare una dinamica di adesione molto elevata (+10,3% nel 2016 e il 42% del totale). Ai 36 fondi negoziali aderiscono in 2,6 milioni; 1,3 milioni ai 43 fondi aperti (quelli promossi dai soggetti di mercato). Sono solo 650mila gli aderenti ai 294 fondi preesistenti, benché essi detengano la quota più rilevante di risorse destinate alle prestazioni e nonostante il numero ridotto degli aderenti (il fatto è che sono operanti ormai da decenni).

 

Va da sé, invece, che la grande maggioranza dei flussi contributivi (14,2 miliardi lo scorso anno) finiscono nelle forme di più recente costituzione.  Residuale e “in cerca d’autore” se ne sta il Fondinps, a prova che ognuno deve fare il proprio mestiere anche quando si tratta di enti previdenziali. La radiografia del settore mette in evidenza una struttura che è stata definita “rachitica”. Alla fine del 2016 sono 36 (32 nel 2015) le forme pensionistiche con più di un miliardo di risorse accumulate (13 fondi negoziali, 4 fondi aperti, 6 PIP e 13 fondi preesistenti); esse concentrano 93,4 miliardi di euro (80,5 nel 2015) pari al 65 per cento del totale (60 per cento nel 2015). La classe tra 500 milioni e 1 miliardo raggruppa 32 forme (11 fondi negoziali, 10 fondi aperti, 2 PIP e 9 fondi preesistenti), totalizzando 23 miliardi di euro di risorse accumulate. I fondi con risorse inferiori a 25 milioni di euro sono 197 (203 nel 2015), per un totale accumulato di 1,5 miliardi (appena l’1 per cento del complesso delle risorse destinate alle prestazioni); nessun fondo negoziale figura in tale classe dimensionale che, invece, comprende 7 fondi aperti, 34 PIP e 156 fondi preesistenti.

 

L’analisi può essere analogamente sviluppata prendendo a riferimento il numero degli iscritti attivi. Oltre la metà (239 su un totale di 452) delle forme pensionistiche ha meno di 1.000 iscritti, per complessivi 43.000; nessun fondo negoziale appartiene a tale classe nella quale invece figurano 4 fondi aperti, 18 PIP e ben 217 fondi preesistenti. Su 149 forme con meno di 100 aderenti, 147 sono fondi preesistenti e 2 PIP; il totale degli iscritti a tali forme è di circa 1.800. Sono quindi ancora presenti nel sistema numerose forme con un numero limitatissimo di iscritti attivi: in gran parte dei casi si tratta di fondi preesistenti “a esaurimento”, che accolgono spesso solo pensionati (a fine 2016 le forme con solo pensionati erano 75).

 

Merita, poi, un particolare interesse – anche per valutare la corrispondenza della previdenza complementare alle sue finalità istitutive – l’analisi delle prestazioni garantite e degli investimenti effettuati. Per quanto riguarda la prima questione, se la previdenza complementare doveva servire ad erogare una pensione di scorta che si aggiungesse a quella pubblica, questo obiettivo è sostanzialmente fallito: solo 700 milioni circa si sono tradotti in rendite; le prestazioni in capitale sono ammontate a 2 miliardi, i riscatti a 1,6 miliardi, le anticipazioni (gran parte non connesse a cause specifiche come le spese sanitarie ed immobiliari) si sono attestate a 2 miliardi.

 

In tema di investimenti si assiste, in pratica, al trasferimento dai bilanci delle aziende di risorse private in direzione dell’acquisto di titoli di debito (61%), in larga misura (3/4) titoli di Stato, anche esteri. La principale fonte di finanziamento della previdenza complementare, infatti, è costituita dal TFR.  Nel 2016 il flusso complessivo di TFR generato nel sistema produttivo può essere stimato in circa 25,2 miliardi di euro; di questi, 13,7 miliardi sono rimasti accantonati presso le aziende, 5,7 miliardi versati alle forme di previdenza complementare e 5,8 miliardi destinati al Fondo di Tesoreria. Dall’avvio della riforma, la ripartizione delle quote di (tranne che nel 2008, i rendimenti delle forme a capitalizzazione sono stati superiori a quelli, ope legis, del TFR) generate nel sistema produttivo fra i diversi utilizzi è rimasta pressoché costante: circa il 55 per cento dei flussi resta accantonato in azienda, un quinto del TFR viene annualmente versato ai fondi di previdenza complementare e il residuo viene indirizzato al Fondo di Tesoreria. In sostanza, dal 2007 al 2016 su 243 miliardi di TFR generati nel complesso nel sistema produttivo, circa 50 miliardi sono stati destinati alle forme di previdenza complementare, 56 miliardi al Fondo di Tesoreria (gestito dall’INPS) e 136 miliardi sono rimasti accantonati nei bilanci delle aziende.  In sostanza, a fronte di 50 miliardi provenienti in un decennio dai bilanci aziendali, ad osservare la composizione degli investimenti, sono stati destinati a titoli emessi dal sistema delle imprese 3,4 miliardi (3%) di cui 2,3 miliardi in obbligazioni ed 1,1 miliardi in azioni.

L’investimento in attività “domestiche” è ammontato a 35 miliardi (29,5%), 31 miliardi dei quali in titoli di Stato.  In conclusione, non si può dire che “il secondo pilastro” svolga le funzioni per cui era stato pensato. Non aiuta i giovani a migliorare il loro tasso di sostituzione (gli utenti sono lavoratori al centro della loro carriera professionale; le donne sono memo del 30%); non incrementa più di tanto il mercato dei capitali; non si traduce, se non raramente, in una seconda pensione che si aggiunge a quella obbligatoria. La sua principale caratteristica finisce per essere una forma di risparmio agevolato sul piano del finanziamento (in quanto rende disponibile il TFR) e del regime fiscale, a favore delle coorti più anziane, stabili e sindacalizzate. Peraltro, anche la distribuzione territoriale vede prevalere le aree a maggiore sviluppo ed occupazione del Centro-Nord, rispetto a quelle del Mezzogiorno.

 

(dati di fine 2015; valori percentuali; età media in anni) Classi di età Fondi pensione negoziali Fondi pensione aperti Fondi pensione preesistenti PIP “nuovi” Totale (1)
inferiore a 25 1,8 6,8 1,0 4,9 3,6
tra 25 e 34 13,1 13,0 8,2 16,9 13,7
tra 35 e 44 29,3 26,6 24,2 26,2 26,9
tra 45 e 54 36,2 31,9 36,8 28,8 32,6
tra 55 e 64 19,0 19,0 26,3 20,2 20,6
65 e oltre 0,7 2,7 3,4 3,0 2,7
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Per memoria:
Età media 45,9 45,1 48,9 45,1 46,1

 

Ma la svolta vera sarebbe quella di individuare una nuova mission. A questo proposito, un’idea molto interessante è contenuta in un recente articolo pubblicato sul Sole-24ore on line da Stefano Patriarca, esperto di lungo corso, ora consigliere della Presidenza del Consiglio. Partendo dalla premessa che  le generazioni del contributivo hanno (per legge) una prospettiva di pensionamento non anteriore ai 68 – 70 anni e che a tali età di pensionamento i tassi di sostituzione assicureranno  pensioni quasi equivalenti a quelle garantite dal sistema retributivo (perché non è il tipo di calcolo, come si ritiene, a produrre trattamenti modesti, ma la precarietà e la discontinuità della vita lavorativa) Patriarca sostiene che è destinata a perdere rilevanza la prospettiva dell’integrazione del reddito, affidata alla pensione privata. “È necessario – scrive – pensare invece ad un sistema rinnovato, che offra una copertura adeguata di reddito anche prima dell’età di pensionamento, che consenta, per questa via, scelte flessibili di permanenza o meno nel mercato del lavoro. È questa l’esigenza che ha cominciato a voler cogliere l’istituzione di RITA, che consente di avere il montante accumulato in rate prima del pensionamento pubblico. È questa la strada da rafforzare: non una modesta rendita da aggiungere alla pensione pubblica quando arriverà, ma un’opportunità di reddito prima di quell’età, ribaltando lo schema di norme vincolistiche che scoraggia l’adesione ai fondi proprio perché la percezione spesso è quella di un “risparmio ibernato” come si percepisce lontana la pensione pubblica”.

Alla Covip è affidato il compito di vigilare sugli investimenti delle Casse privatizzate dei liberi professionisti. Nella relazione si mette bene in evidenza che i Fondi pensione e le Casse investono in Italia circa 71 miliardi di euro pari al 37% del totale degli attivi. Oltre la metà delle risorse (40,2 miliardi) è formata da titoli di Stato, mentre poco più di un terzo da investimenti immobiliari (soprattutto ad opera delle Casse per 18 miliardi di euro). La quota destinata al finanziamento delle aziende italiane è di soli 7,2 miliardi (3,7% delle attività totali: 3,4 miliardi in titoli di debito, 3,8 miliardi in titoli di capitale (comprensivi anche di 800 milioni di quote della Banca d’Italia).

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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