Politically (in)correct – Europa 2017: il populismo e le politiche del lavoro

Nel corso dell’anno gli elettori saranno chiamati alle urne in Olanda (il 15 marzo), per la presidenza della Repubblica in Francia (ad aprile), per le politiche in Repubblica Ceca a giugno, in Germania in autunno. Si voterà anche per le presidenziali in Serbia a maggio, in Norvegia a settembre. Gli esiti del voto saranno comunque significativi anche se questi due Paesi non fanno parte dell’Unione. Per quanto riguarda l’Italia la data è ancora incerta, ma in ogni caso non si andrà oltre i primi mesi del prossimo anno. In tutte queste competizioni elettorali saranno in campo delle formazioni populiste, antieuropee, più o meno xenofobe, e contrarie alla monete unica, che raccoglieranno significati consensi, anche laddove non vinceranno, e che, non solo allargheranno la loro rappresentanza parlamentare, ma influenzeranno le stesse scelte degli altri partiti, sia sul piano dei contenuti programmatici (anche i partiti europeisti si metteranno a sparare contro la Croce rossa di Bruxelles e protesteranno contro le politiche di austerità), sia su quello delle possibili alleanze post-elettorali, secondo logiche di grandi (e fragili) coalizioni tra partiti che in passato hanno avuto posizioni alternative, ma che saranno costretti a fare fronte comune in difesa dell’establishment.

 

In sostanza, i tradizionali e secolari confini tra destra e sinistra o non esistono più o non sono più in grado di evitare la contaminazione delle idee e delle scelte politiche. Anche i ceti sociali che facevano riferimento ai partiti progressisti o conservatori oggi somigliano alle balene che perdono l’orientamento e si arenano sulle spiagge. Spesso le classi lavoratrici sono diventate la nuova base elettorale delle forze populiste, le quali promettono – nell’ambito di politiche isolazioniste, protezioniste e sostanzialmente xenofobe – il ripristino si quelle tutele e garanzie, messe in crisi dai processi economici e sociali connessi alla globalizzazione e all’integrazione dei mercati. La sfida planetaria aperta tra internazionalizzazione dell’economia, libertà ed integrazione dei mercati, da un lato, e neoprotezionismo, dall’altro, nel vecchio continente si traduce in un confronto decisivo tra europeisti e “sovranisti”.

 

Questo scontro non ha soltanto un profilo di carattere istituzionale ed economico, ma si riversa immancabilmente sulle politiche del lavoro, in cui è più marcata e significativa la convergenza dei populismi di destra e di sinistra, al punto di influire anche sulle scelte politiche dei partiti “storici”. In sostanza, è la demagogia a tenere banco, contro le politiche di austerità, l’equilibrio dei bilanci pubblici, la sostenibilità dei sistemi di welfare. “Ora, in Europa le forze definite come populiste – ha scritto Massimo Pittarello – raccolgono voti a destra, cavalcando le paure per l’immigrazione clandestina, e voti a sinistra, in polemica verso l’austerity e “la casta”. Ormai un eurodeputato su tre appartiene al fronte euroscettico o euro-critico e certamente il loro peso politico e istituzionale è destinato a crescere con le prossime elezioni. In Francia, la somma dei voti a Le Pen, Melenchon e Hamon supera il 50%, lo stesso che per la Brexit, per l’Italia (con la somma di 5 Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana), la Spagna, la Grecia, l’Ungheria e un po’ in tutta Europa’’. E le politiche? Tendono a confondersi. In Francia, il programma del candidato socialista Benoit Hamon è fondato sul rifiuto dell’austerità, sul reddito minimo universale, sull’abolizione della riforma del lavoro voluta dal Governo Valls e sulla legalizzazione delle droghe leggere.

 

Il Front National ha proposto ben “144 impegni”, tra cui un aumento dj 200 euro dei salari più bassi, la “reintroduzione della moneta nazionale”, l’introduzione di una tassa del 3% sulle importazioni, il ripristino dell’età pensionabile a 60 anni ( e 40 anni di contribuiti): una linea di “patriottismo economico” (“On est chez nous”, padroni a casa nostra): il partito ha quadruplicato i consensi dal 2009 al 2014 e porterà comunque un centinaio deputati (contro i due attuali) all’Assemblea Nazionale nelle prossime legislative anche se Marine Le Pen non dovesse vincere le elezioni presidenziali. Martin Schultz, in Germania, dovrà dimostrare la capacità di guardare a sinistra, verso un alleanza con Verdi e Linke, mentre Frauke Petry, co-leader del partito Alternativa per la Germania, si ispira a Donald Trump e sostiene che “anche i tedeschi devono avere il coraggio di fare la scelta nella cabina elettorale da soli”. La battaglia sui migranti, sull’uscita dall’euro, sul nazionalismo e sul rigorismo di bilancio stanno lanciando l’Afd ben oltre il 15%.

 

Per posizioni dei “sovranisti” italiani sono note: mescolano tra loro, in un amalgama esplosivo e devastante, isolazionismo politico e demagogia sociale. Su tutto e il suo contrario. Che fare allora? Diceva Giacomo Brodolini che chi sceglie i propri amici, sceglie anche i propri nemici. L’espressione può essere rovesciata. Pertanto, è il caso di chiedersi chi sono in Europa, oggi, i “nemici” (vogliamo pudicamente chiamarli “avversari”?). Eccoli: i saltimbanchi che si sono riuniti a Coblenza, i guru che ipnotizzano le folle, al pari dei movimenti del sinistrismo radicale, schierati contro il rigore, la “casta” e ciò che loro chiamano establishment. Con costoro è aperto uno scontro – per fortuna ancora incruento – non di poco conto, perché riguarda la prospettiva dei futuri ordinamenti, dell’economia, del vivere civile nel Vecchio Continente. Anche negli anni tra i due conflitti mondiali del XX secolo e nel mezzo della grande crisi del ’29 si giocava, in Europa, una partita decisiva per il futuro, contro nemici che allora si chiamavano ‘’fascisti’’ e che erano certamente diversi dai populisti di oggi (anche se usavano più o meno gli stessi argomenti). Il fatto è che, in quella battaglia, sia pure con tante incertezze, opportunismi tattici e difficoltà, gli Usa e il Regno Unito si schierarono dalla parte giusta e salvarono il Vecchio Continente (l’impegno bellico americano nella seconda guerra mondiale fu di gran lunga prevalente in Europa – la strategia dell’Atlantic first – rispetto a quello sviluppato nel Pacifico).

 

Oggi, nella terza guerra mondiale (virtuale) in atto, Donald Trump e Theresa May stanno dalla parte dei nostri ‘’nemici’’, ne sono gli ispiratori, i punti di riferimento. Ma noi ci stiamo trasformando in osservatori distaccati, in analisti politici, piuttosto che i militanti impegnati a difendere e sostenere dei valori non negoziabili. Ci stiamo assuefacendo troppo al principio del “ciò che è reale, è anche razionale”, caro al vecchio Hegel. Ormai siamo capaci di trovare delle spiegazioni (e delle giustificazioni) per tutto: per Grillo, per Salvini, per la Brexit, per la vittoria di Trump, per la crescente xenofobia, per il rinato “patriottismo della canaglie”, per la demagogia, per l’antipolitica e quant’altro. Certo questi fenomeni non nascono a caso. Ed è senz’altro vero che non sono state capiti i motivi che hanno determinato i colpi di scena del 2016. Ma a noi – lo ripetiamo – non interessa capacitarci una buona volta di quei motivi. Il nostro imperativo categorico è quello di contrastarli, di combatterli, non di interpretarli.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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