Politically (in)correct – Dopo la Brexit: le menzogne dei populismi

“Ci stanno raccontando che la democrazia diretta e i sondaggi in tempo reale risolvono magicamente i problemi, che esistono sempre delle soluzioni semplici e a portata di mano, che non c’è più bisogno di esperti e competenze, che la fatica e la pazienza non sono più valori, che smontare vale più di costruire”. Il brano è tratto dalla lettera aperta ai giovani che Mario Calabresi ha voluto pubblicare su quotidiano da lui diretto (La Repubblica) all’indomani del referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

 

Nella tragedia politica consumata il 23 giugno, il voto dei giovani, in larga parte a favore del remain, e la loro protesta nei confronti della linea di condotta delle generazioni più anziane stanno a dimostrare che, nonostante la grave battuta d’arresto subita, la speranza di un’Europa unita – che ha alimentato più di mezzo secolo di battaglie politiche delle classi dirigenti del Vecchio Continente (vi sono Paesi che ancora si mettono in lista di attesa per essere ammessi a far parte della Ue) – non si è dissolta tra le nebbie del Canale della Manica.

 

Ma Calabresi – con l’illuminazione dei momenti difficili – ha colto, nella loro essenzialità, i ‘’cattivi’’ insegnamenti che dei ‘’cattivi’’ maestri pretendono di impartire alle giovani generazioni. Il populismo si nutre, infatti, di un’irresponsabile semplificazione della realtà. E proprio perché sarebbe semplice risolvere i problemi, anche quelli più ardui, vanno ricercate le responsabilità di quanti (governi, istituzioni, partiti, leader, categorie sociali, singole persone, ecc.) che non possono o non vogliono farlo.

 

Soffermiamoci per un attimo sulle ricette di Matteo Salvini, il semplificatore dei problemi per eccellenza. Ad avviso del leader della Lega (non più, nei fatti) Nord il dramma dei migranti lo si potrebbe risolvere usando la Marina Militare per bloccare le ‘’carrette’’ in mezzo al mare (come se non fosse possibile eludere i blocchi navali) costi quello che costi, in termini di vite umane. Per le bande del populismo militante, non esistono, infatti, le grandi questioni demografiche (a fine secolo l’Africa avrà una popolazione sette volte maggiore di quella dell’Europa), le carestie, le siccità, le guerre che – da quando l’umanità si trova a calpestare questa terra – hanno accompagnato e determinato la sua storia. A risolverle basterebbero un muro, un confine vigilato, una ruspa.

 

Certo, chi sostiene una linea diversa non ha dato buona prova, ma almeno si rifiuta di ingannare le popolazioni e tenta di far capire la complessità dei problemi e s’ingegna a non esasperare i toni e la rappresentazione della realtà. In un recente Convegno (Immigrati: da emergenza ad opportunità) il Centro Studi della Confindustria (CSC) ha affrontato – con il solito rigore scientifico e un’ indubbia impostazione riformista – la problematica dell’immigrazione, mettendone in evidenza – oltre a smantellare i classici luoghi comuni – le opportunità.   Quali sono, in particolare, i luoghi comuni (oseremmo parlare persino di idola tribus) da smentire: gli immigrati determinano un abbassamento degli stipendi; sottraggono posti di lavoro agli italiani; sono un costo per lo Stato e le finanze pubbliche; peggiorano i problemi legati alla criminalità.

 

Bene. Innanzi tutto il CSC stima che, senza l’apporto di lavoro straniero, il PIL italiano sarebbe di 124 miliardi più basso. Sarebbe cresciuto meno negli anni di espansione e sarebbe caduto di più negli anni della crisi. La popolazione straniera residente in Italia è cresciuta molto e molto velocemente: da 2,1 milioni nel 2000 a 5,8 milioni nel 2015; dal 3,7% al 9,7% della popolazione (in linea con la Ue e a livelli inferiori della Germania e della Spagna). Dai paesi extra-UE – precisa il CSc – arriva il 60,1% degli stranieri che sono in Italia (erano il 91,9% nel 2003, prima dell’allargamento ai paesi dell’Est). Più della metà è venuto per lavorare. Uno su duecento è stato accolto per ragioni umanitarie. Gli irregolari sarebbero meno di 300mila secondo le stime più aggiornate, il 6% dell’immigrazione totale. Nei centri di accoglienza – a fine maggio dell’anno in corso – erano ospitati in 119mila. Il CSC sottolinea, poi, che in Italia vi è una sovra-percezione del fenomeno (il 26% anziché il 9%) più alta che altrove. L’immigrazione, poi, compensa il nostro inesorabile declino demografico: nel 2065 saranno 13,2 milioni, il 22,0% della popolazione totale. Dal lato della domanda, all’Italia gli immigrati servono per attenuare gli squilibri demografici; alimentare il progresso economico, attraverso l’aumento della forza lavoro; garantire la sostenibilità del sistema di welfare, in primis le pensioni; smorzare i conflitti intergenerazionali.

 

Anche se un Italiano su due pensa che gli stranieri ‘’rubino’’ il lavoro agli italiani, la realtà è che gli immigrati sono adibiti a lavori che i nativi non svolgerebbero e che diventano complementari alle mansioni svolte dagli italiani. Un chiaro esempio di complementarietà è il lavoro domestico, che in Italia è effettuato in larga parte da lavoratrici extra-comunitarie, facilita la conciliazione tra famiglia e lavoro e permette a molte donne italiane di entrare e rimanere nel mercato del lavoro.

 

Tanti altri aspetti potrebbero essere ricordati per quanto riguarda il problema dell’immigrazione e dei migranti. In particolare, il CSC indica un percorso complesso ed articolato per quanto riguarda l’integrazione, dopo aver sottolineato che, se è vero che una quota importante del welfare locale è rivolto agli stranieri e alle loro famiglie, è altrettanto dimostrato, da tutti gli studi, che nell’aggregato l’impatto dell’immigrazione sulla finanza pubblica italiana è positivo: 12 miliardi di euro (2009). Il contributo medio di un immigrato alle entrate pubbliche è inferiore a quello di un autoctono, ma anche la spesa pubblica di cui usufruisce è più contenuta.

 

Tornando ai “cavalli di battaglia” del populismo, per i suoi profeti l’uscita dall’euro e il ritorno alla lira ci riporterebbero al “piccolo mondo antico” delle svalutazioni competitive e, soprattutto delle pensioni facili (abbasso la riforma Fornero !), da utilizzare come politiche attive del lavoro. Ma è proprio vero che andando in pensione a 65-67 anni si sottraggono posti di lavoro ai giovani? Vediamo cosa accade – con l’aiuto di uno studio del prof. Alberto Brambilla – in alcuni paesi comparando l’età di pensione con la percentuale di disoccupazione giovanile (under 29 anni) e con i tassi di occupazione degli over 55 in raffronto con i Paesi UE. Emerge, infatti, che nei Paesi in cui l’età effettiva di pensionamento è più bassa, colà è anche più elevata la disoccupazione giovanile. Il contrario avviene laddove è più elevata l’età di pensionamento.

 

Ovviamente, queste comparazioni non hanno un valore probante e definitivo, in quanto a creare occupazione concorrono altre e più significative condizioni. Inoltre, l’aspettativa di vita in Italia per un 65enne è di 19 anni per gli uomini e 23 anni per le donne, a fronte di valori che nei Paesi OCSE si fermano rispettivamente a 16 e 21 anni; è ovvio che occorre bilanciare il tempo da attivo con quello da pensionato altrimenti si scaricano sui giovani oneri e debito pubblico.

 

Scarica il PDF pdf_icon

Politically (in)correct – Dopo la Brexit: le menzogne dei populismi
Tagged on: