Politically (in)correct – Disciplina del licenziamento individuale alla Consulta: si inizia dalla legge n. 92/2012 per arrivare al contratto a tutele crescenti e al Jobs Act?

Bollettino ADAPT 1 marzo 2021, n. 8

 

Le sentenze della Corte Costituzione non ammettono repliche, né revisioni o impugnazioni di sorta. Sono definitive come la morte. Possono però essere commentate, sia pure con il garbo dovuto ai giudici delle leggi. Va da sé che è corretto azzardare un commento, non solo per il dispositivo in sé, ma in presenza delle motivazioni che lo hanno determinato. Con questo approccio, prendiamo atto del comunicato con cui l’Ufficio stampa della Consulta ha reso noto, il 24 febbraio scorso, che la Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, aveva esaminato la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo.  La questione è stata dichiarata fondata con riferimento all’articolo 3 della Costituzione. La Corte ha ritenuto che fosse irragionevole – in caso di insussistenza del fatto – la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in quest’ultima ipotesi è previsto –spiega il comunicato – l’obbligo della reintegra mentre nell’altra è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di un’indennità. Ci fermiamo qui, in attesa delle motivazioni che perverranno nelle prossime settimane.

 

È bastato, tuttavia, nominare l’articolo 18 dello Statuto e la reintegra nel posto di lavoro, perché ‹mettessero mano alla pistola› tutti quelli che non hanno mai disarmato nei confronti del jobs act e segnatamente del d.lgs. n.23/2015 (che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti). Pur essendosi resi conto che – magari non subito – che si trattava di una norma della legge n. 92/2012 (la riforma del mercato del lavoro a firma Elsa Fornero) hanno accolto il giudizio della Corte come l’annuncio di una prossima rimozione di quello che loro considerano il più grave vulnus ai diritti dei lavoratori inferto dall’associazione criminosa che ha concepito ed imposto il jobs act. In verità, l’articolo 18 – come novellato dalla legge del 2012 – ha un ambito di applicazione molto più ampio di quello del d.lgs. n. 23/2015, essendo la prima la norma che regola il licenziamento individuale per tutti coloro che a far data dal 7 marzo 2015 sono stati assunti con il contratto di nuovo conio (peraltro non ritenuto applicabile nel pubblico impiego).

 

A dire la verità la disciplina del recesso che scaturisce dalla riforma Fornero è particolarmente complicata ed è arduo reperire un filo conduttore per tenere a mente le diverse fattispecie. Ad avviso di chi scrive è sembrato più lineare il metodo a suo tempo individuato dai giuristi che, come Luisa Galantino, hanno ordinato le casistiche attraverso il regime delle sanzioni. Scrive infatti la giuslavorista modenese, ora scomparsa, nel suo “Diritto del lavoro”, Giappichelli, Torino, aggiornato a ottobre 2015: “L’art. 1, comma 42 della legge n. 92 del 2012 apporta significative novità al testo dell’art. 18 St. lav., che prevedeva l’identica conseguenza della reintegrazione per tutti i tipi di illegittimità del licenziamento, nullità, inefficacia, annullabilità. Tale regime viene modificato a favore di un sistema sanzionatorio più modulato ed articolato, che prescinde dalle dimensioni occupazionali ed è invece ancorato alle ragioni effettive del licenziamento. I regimi sanzionatori – proseguiva Galantino – diventano quattro e sono così distinti: reintegrazione con risarcimento pieno; reintegrazione con risarcimento limitato a dodici mensilità; risarcimento compreso fra le dodici e le ventiquattro mensilità; risarcimento compreso fra le sei e le dodici mensilità. Il regime di reintegrazione con risarcimento pieno viene proposto nei confronti dei licenziamenti: discriminatori ai sensi dell’art. 3 della legge n.108 del 1990; intimato in costanza di matrimonio ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 198 del 2006; in violazione del divieto di licenziamento di cui all’art. 54,commi 1, 6, 7, 9 del d.lgs. n. 151 del 2001; riconducibile ad altri casi di nullità di legge; determinato da motivo illecito determinante ai sensi dell’art.1345 c.c.; inefficace perché intimato in forma orale (art. 18, comma 1). Tale regime di c.d. tutela reale si applica indipendentemente dal motivo formalmente addotto e dal numero dei dipendenti del datore di lavoro ed altresì nei confronti dei dirigenti. Il rapporto, quindi, continua ininterrottamente, anche se l’attività lavorativa non è stata di fatto eseguita. Nel regime di tutela obbligatoria il licenziamento – pur ingiustificato – risolve comunque il rapporto. Al lavoratore – a parte le indennità risarcitorie – non spetta nulla per il periodo compreso tra il licenziamento e la sentenza, anche se a lui favorevole. Ciò è confermato anche dal sostantivo “riassunzione” utilizzato in questo caso: non lo si confonda con la ben diversa figura della “reintegrazione”. La prima è una ri-assunzione, cioè una nuova assunzione, la instaurazione di un nuovo e diverso rapporto del tutto autonomo rispetto al precedente; la seconda è invece il semplice ripristino di un rapporto interrotto solo di fatto ma non di diritto (tanto è vero che permangono l’obbligazione retributiva e quella contributiva).

 

Come è noto la reintegra o meno è stata ed è la questione cruciale del dibattito sulla disciplina del licenziamento individuale. Non c’è da meravigliarsi  che la dottrina non sia riuscita a spiegare in modo univoco quanto disposto in materia di  licenziamento per giustificato motivo oggettivo dalle legge n.92 del 2012: se l’atto è dipendente da scelte datoriali, il legislatore dispone che la reintegrazione da un lato si applichi solo per “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento – espressione che ricalca parzialmente quella della “insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento disciplinare – dall’altro si ponga come scelta almeno apparentemente discrezionale del giudice, il quale “può” e non “deve” applicare la tutela reale (comma 7 dell’art. 18). Quest’ultimo disposto della norma ha sollevato secondo alcuni dubbi di costituzionalità, dato che non sono fissati espressamente i criteri in base ai quali il giudice decide di applicare o non applicare il regime reintegratorio. Secondo altri, invece, la norma intende attribuire al giudice la facoltà di valutare in concreto se la mancata fondatezza delle ragioni addotte costituisca indizio di un motivo illecito di licenziamento. I giudici delle leggi hanno reciso il nodo, ritenendo che sia irragionevole – in caso di insussistenza del fatto – la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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