Politically (in)correct – Crisi sanitaria e lavoro, un impatto asimmetrico

Bollettino ADAPT 19 aprile 2021, n. 15

 

“Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione – registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021 – hanno determinato – scrive l’Istat – un crollo dell’occupazione rispetto a febbraio 2020 (-4,1% pari a -945mila unità). La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590mila) e autonomi (-355mila) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione scende, in un anno, di 2,2 punti percentuali. Nell’arco dei dodici mesi, crescono le persone in cerca di lavoro (+0,9%, pari a +21mila unità), ma soprattutto gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+5,4%, pari a +717mila)”. Su base annua l’occupazione è calata di 2,5 punti per gli uomini e di 1,8 punti per le donne ed è cresciuta per entrambi il tasso di inattività (di 2,3 punti tra gli uomini e 1,9 punti tra le donne) e quello di disoccupazione, rispettivamente di 0,7 punti e 0,2 punti. In sostanza, oltre ai disoccupati in aumento, dall’inizio della pandemia (e dalle relative assunte contro l’emergenza sanitaria) a gennaio 2021, è scomparso un milione di posti di lavoro, mentre 717mila persone in più si sono sedute sulla riva del fiume in attesa che la corrente trasporti il cadavere della crisi.  Il forte calo degli occupati – sottolinea ancora l’Istat – registrato nei dodici mesi coinvolge tutti: i permanenti diminuiscono dell’1,5% (-218mila), i dipendenti a termine del 12,8% (-372mila) e gli indipendenti del 6,8% (-355mila). Ma come sono distribuiti gli effetti occupazionali del Covid-19. I relativi approfondimenti si trovano in una relazione (per slides, gentilmente trasmesse dall’autore) dal titolo “Crisi sanitaria e lavoro, un impatto asimmetrico”, svolta da Marco Leonardi, docente di economia alla Statale di Milano, ora stretto collaboratore di Palazzo Chigi in qualità di direttore del Dipartimento della politica economica della Presidenza del Consiglio. L’autore, correttamente, premette di esprimere opinioni a titolo personale, ma la sua autorevolezza scientifica e operativa merita una particolare attenzione.

 

Le ricadute occupazionali immediate del COVID 19, e quelle di lungo periodo, dipendono – avverte in premessa Leonardi – tanto dall’incidenza dei provvedimenti amministrativi tanto dal modo in cui la crisi incide sulle condizioni di mercato attuali e future, con modalità che variano a seconda del territorio, della natura dipendente o autonoma del lavoro, dell’età, del genere, del settore produttivo, delle dimensioni aziendali, del reddito del lavoratore e della natura delle sue mansioni.

 

L’esame del modo e dell’intensità con cui la crisi si ripercuote su queste variabili è indispensabile per orientare le scelte di policy che, dopo una prima fase emergenziale, dovranno impiegare razionalmente le risorse, indirizzandole verso la reale configurazione dei bisogni. Pertanto la relazione si divide in tre parti: blocco ateco: conseguenze su settori, età, genere, territorio; blocco licenziamenti: conseguenze su contratti a termine e autonomi; effetto delle misure emergenziali sui redditi.

 

Per quanto riguarda i settori produttivi si registra una forte variabilità nel ricorso alla CIG in termini che, fra i settori stessi, ricalcano in buona parte la geografia delle chiusure amministrative. Si assiste, inoltre, ad una ulteriore asimmetria all’interno dei settori stessi, fra attività essenziali e non essenziali. Nonostante il blocco dei licenziamenti, già nel II Trimestre del 2020 si sono avute ricadute occupazionali significative. Dal punto di vista settoriale, esse ricalcano piuttosto fedelmente la distribuzione delle chiusure, con un calo dell’occupazione già rilevante nel commercio e. nei servizi di alloggio e ristorazione.

 

In chiave territoriale si nota una distribuzione delle attività bloccate piuttosto omogenea sul piano geografico. La differenziazione, semmai, sembra collocarsi su quello della dimensione insediativa, con i comuni delle classi dimensionali più piccole colpiti in maniera più che proporzionale, mentre il fenomeno inverso si osserva per le realtà al di sopra dei 250.000 abitanti. Dalla dimensione insediativa a quella aziendale, si conferma il dato per cui le realtà di minori dimensioni sono più esposte alle conseguenze delle chiusure di quelle più grandi. La medesima considerazione emerge se, anziché genere ed età, si prende in esame la posizione lavorativa, con una prevalenza del lavoro manuale o di bassa qualifica nei settori bloccati ed una sovra rappresentazione di impiegati, quadri e dirigenti nei settori essenziali.  Ad incidere, in questo caso, è, a prescindere dai settori e dai provvedimenti amministrativi che li hanno interessati, la natura stessa delle mansioni, più facilmente trasferibili in modalità smart working per le qualifiche medie ed alte.

 

Le differenze fra livelli alti e bassi di reddito sono evidenti in tutti i paesi. L’Italia, anzi, registra una quota di lavoratori a basso reddito che hanno lavorato da casa superiore a Francia e Germania (ma anche una quota superiore di tali lavoratori che hanno sospeso l’attività).

Se si guarda la fase più acuta, quella del II trimestre 2020, si notano tendenza analoghe benché con oscillazioni più accentuate. Colpisce l’andamento peggiore del lavoro a tempo parziale su quello a tempo pieno, tanto fra i dipendenti a tempo indeterminato quanto fra gli autonomi e, in misura minore, fra i dipendenti a termine. Ma soprattutto colpisce, e preoccupa, come nell’ambito del lavoro autonomo ad essere colpiti siano soprattutto gli autonomi con dipendenti.

Ma soprattutto colpisce, e preoccupa, come nell’ambito del lavoro autonomo ad essere colpiti siano soprattutto gli autonomi con dipendenti.

 

Osservazioni del tutto analoghe alle precedenti possono essere formulate anche a proposito della ripartizione per genere delle perdite occupazionali.

È una crisi che si incunea nelle fratture già esistenti e finisce per allargare i divari secondo linee divisorie preesistenti. La crisi ha colpito soprattutto al di fuori del mondo del lavoro dipendente strutturato, incidendo soprattutto sul lavoro dipendente a termine e su quello autonomo. Anche in Italia, dunque, il Governo ha intrapreso la via delle misure straordinarie e temporanee per intervenire su queste aree del mercato del lavoro.  Di fronte ad un fenomeno di tale portata – ribadisce Leonardi – la reazione italiana (e non solo), è stata quella di impedire che il crollo dei mercati si trasmettesse meccanicamente all’occupazione. Un risultato che alcuni Paesi (fra cui l’Italia) hanno perseguito con misure ordinamentali come il blocco dei licenziamenti e tutti hanno perseguito con strumenti finanziari, come gli schemi di integrazione salariale per lavoro sospeso o ridotto in costanza del rapporto di lavoro.

 

Anche in questo caso si nota come il calo delle ore lavorate nel nostro Paese sia quasi interamente imputabile alla diminuzione delle ore per dipendente piuttosto che dei dipendenti tout court. Se notevole è stato il successo degli strumenti di integrazione salariale straordinari messi in campo nel sostenere il reddito dei lavoratori ed impedire una traduzione immediata della crisi in perdita di occupazione, l’intensità del supporto si è però differenziata spesso lungo le stese asimmetrie e linee di frattura evidenziate. Sul piano generale, Inps e Banca d’Italia hanno stimato nel 27% la perdita reddituale media subita dai lavoratori in cassa integrazione, ma vi sono significativi settori del mondo del lavoro che hanno subito perdite superiori al 40%.

 

L’efficacia delle misure oltre che per livello di reddito si differenzia anche sulla distinzione fra lavoratori di settori sospesi e lavoratori di settori attivi. Una ulteriore differenziazione si registra se si mettono a confronto tanto gli effetti della crisi quanto l’efficacia delle misure su lavoratori dipendenti e autonomi, questi ultimi a loro volta suddivisi fra attivi e sospesi.

Le misure sperimentali di emergenza messe in campo, in questo caso, sembrano avere addirittura determinato l’effetto di una più che compensazione delle perdite per i lavoratori autonomi sospesi e, in misura minore, attivi, soprattutto nella metà più bassa della distribuzione per livello di reddito.

 

 

 

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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