Politically (in)correct – Alla riscoperta dell’acqua calda

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Mettiamo il caso che sia vostra intenzione acquistare un’automobile e che siate incuriositi dalla martellante pubblicità televisiva attraverso la quale una nuova casa produttrice, di repentino successo, sta lanciando sul mercato un suo modello. Vi recate dal rivenditore che vi mostra la vettura, cerca di persuadervi a pagare un prezzo elevato (quello di listino) perché, a suo dire, vale la pena averla. Poi, ad un tratto, gettando di sfuggita un’occhiata al contachilometri vi accorgete che, in realtà, vi stanno rifilando un’auto usata. Incuriositi ed insospettiti, prestate ancora più attenzione e scoprite che sono presenti ammaccature camuffate con una pennellata di vernice, per di più di un colore diverso, e notate che i pneumatici hanno eroso quasi tutto il battistrada per non parlare di altri gravi difetti. Arrivate così alla conclusione che da quel signore non sono si possono acquistare autovetture nuove, ma è bene non fidarsi neppure di quelle usate.

 

Dove vogliamo arrivare con questa metafora politically(in)correct (ma coerente con la natura stessa della rubrica, la cui libertà è garantita dai bravi giovani che curano il Bollettino)? Semplicemente a raccontare un episodio che ha visto protagonista il neo superministro del Lavoro e dello Sviluppo economico nonché vice-premier del governo Conte, al suo esordio ad un congresso sindacale (il XVII della Uil svoltosi nei giorni scorsi). Nel suo intervento Luigi Di Maio si è soffermato su uno dei temi cari al Movimento di cui è “capo politico”: il reddito di cittadinanza, croce e delizia, ormai da anni, del dibattito politico. Ma per non compiere passi falsi riportiamo le parole di Di Maio, in proposito, per come le abbiamo lette ed ascoltate nei media.  (Il reddito di cittadinanza, ndr) “Non è dare soldi a qualcuno per starsene sul divano.  Ma è dire con franchezza: hai perso il lavoro ora ti è richiesto un percorso per riqualificarti ed essere reinserito in nuovi settori”. Ecco perché non basterà formarsi, cercare attivamente un’occupazione. In cambio del reddito minimo, “dai al tuo sindaco ogni settimana 8 ore lavorative gratuite di pubblica utilità”. Dunque il lavoro socialmente utile sarà “’conditio sine qua non’ per ottenere l’assegno”.

 

Se le parole – le quali esprimano sempre dei concetti – hanno un senso, assistiamo al “cambiamento” sostanziale del ruolo e delle funzioni del reddito di cittadinanza. Sarà perché viene naturale ai giovani (soprattutto se studiano poco) pensare di essere i primi a compiere un’attività o un’esperienza che, magari, risale alla notte dei tempi, nell’intervento del neo ministro ci imbattiamo in antiche conoscenze, come ad esempio i lavori socialmente utili, gli LSU che, già  concepiti  come una misura provvisoria per dare lavoro, sono diventati – specie in alcune aree del Paese – una vera e propria condizione professionale, uno stato giuridico stabilizzato da decenni, sempre eguale a se stesso, compreso il fatto che gli interessati si guardano bene dallo svolgere qualsiasi attività formativa che venisse loro proposta  o anche di accettare percorsi di inserimento nel mercato del lavoro privato, essendo la posizione degli LSU divenuta ormai una sorta di ultimo girone dell’impiego pubblico.

 

Tornando, invece, alle cose più serie (si fa per dire) ci sembra di aver notato una certa discrepanza tra le parole del ministro e quelle contenute nel contratto giallo-verde: una discrepanza che si trasforma in una faglia se paragonata – come vedremo – ai profili contenuti nel progetto di legge “grillino” sul reddito di cittadinanza. Cominciamo da una definizione tecnica di chi “ha perso il lavoro”: si chiama “disoccupato” e non va confuso con quanti il lavoro non lo hanno ancora sperimentato, i quali vengono definiti “inoccupati”. C’è poi la variante dei neet (i c.d. scoraggiati che ormai hanno lasciato perdere tutto, gli studi e la ricerca del lavoro), ma non entriamo troppo nei particolari. Bene: a tutela dei disoccupati (involontari, ai sensi dell’art.38 della Costituzione) esiste, da molti decenni, una indennità che, da ultimo ha preso il nome di Naspi e che, tutto sommato, è assai più conveniente del reddito di cittadinanza, al punto da “cannibalizzare” lo stesso “assegno di ricollocazione”, dal momento che nelle prime esperienze di politiche attive del lavoro è emerso che i lavoratori disoccupati preferiscono centellinare fino all’ultimo giorno di durata il regime Naspi, prima di rimettersi in gioco attraverso un percorso di riqualificazione accompagnati dal relativo assegno.

 

Che cosa è scritto in proposito del reddito “grillino” nel contratto? Ecco qua: “La misura si configura come uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di bisogno; l’ammontare dell’erogazione è stabilito in base alla soglia di rischio di povertà calcolata sia per il reddito che per il patrimonio. L’ammontare è fissato in 780,00 Euro mensili per persona singola, parametrato sulla base della scala OCSE per nuclei familiari più numerosi”. Versare in condizione di bisogno è sicuramente un concetto molto più ampio dell’essere disoccupato.  Infatti, il profilo dei beneficiari viene descritto dal comma 2 dell’articolo 1 dell’AS 1148 nei seguenti termini:

“2. Il reddito di cittadinanza è finalizzato a contrastare la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, a garantire il diritto al lavoro, la libera scelta del lavoro, nonché a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura attraverso politiche finalizzate al sostegno economico e all’inserimento sociale di tutti i soggetti in pericolo di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”.

 

Che cosa siamo legittimati a pensare allora? Che, parlando ad un congresso sindacale, Di Maio abbia voluto sottolineare soltanto uno degli aspetti del reddito di cittadinanza (la tutela contro la disoccupazione) perché più consono all’ambiente che lo ospitava? Se così fosse ci sarebbe stata una sottovalutazione dell’impegno di carattere generale dei sindacati, molto attenti (almeno a parole) alle problematiche della lotta all’esclusione sociale. Oppure dobbiamo pensare che, per ragione di costi, il reddito di cittadinanza sarà ridimensionato per quanto riguarda i destinatari? A che servirebbe se fosse così? A prendere il posto della Naspi? E per quale motivo? Ecco perché siamo più propensi a credere che il neo ministro abbia le idee confuse in materia di diritto del lavoro.  Ce ne eravamo già accorti nel leggere la bozza del decreto dignità.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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Politically (in)correct – Alla riscoperta dell’acqua calda
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