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Bollettino ADAPT 13 luglio 2020, n. 28

 

Tra marzo e maggio di quest’anno in Italia abbiamo avuto ben 381 mila occupati in meno di cui l’83% (318 mila) a termine. Numero che sale a 592 su 613 mila (il 95%) se consideriamo gli ultimi dodici mesi. Numeri da poco diffusi da Istat e che potrebbero far immaginare una transizione importante verso occupazioni a tempo indeterminato, cosa che però è avvenuta solo in piccola parte. Infatti nell’ultimo trimestre sono solo 27 mila in più gli occupati permanenti e nell’ultimo anno sono 183 mila, e non è detto che si tratti interamente di trasformazioni da un contratto all’altro.

 

Sono dati che non possono passare inosservati di fronte al dibattito sulle modifiche al Decreto Dignità da un lato e sul prolungamento del blocco dei licenziamenti e degli interventi straordinari in materia di cassa integrazione dell’altro. Emerge infatti come convitato di pietra un tema storicamente mai affrontato nella sua portata e nella sua importanza, quello delle politiche attive. Perché se era legittimo immaginare di derogare ai limiti imposti dal Decreto Dignità in materia di durata massima e di causali per i contratti a tempo determinato, così da evitare che molte imprese non rinnovino i contratti dopo i 12 mesi, ed è uno sbaglio non averlo fatto, questo avrebbe risolto solo una parte del problema. Sappiamo infatti che la struttura del mercato del lavoro ormai da anni sta vivendo una profonda mutazione derivante dai cambiamenti delle preferenze di consumo e dai diversi processi produttivi delle imprese di tutti i settori. Questo introduce maggiori livelli di incertezza, alimentati anche dalla forte integrazione globale prima della pandemia che ora, con la sua parziale crisi, introduce paradossalmente ulteriore incertezza. Se le imprese spesso scelgono di avviare il rapporto con i più giovani attraverso tirocini che hanno in molti casi una dubbia valenza formativa, è il contratto a tempo determinato che negli ultimi anni ha costituito uno dei principali canali di accesso nelle imprese per la grande maggioranza dei lavoratori.

 

Non è però possibile pensare ad una semplice e diffusa linearità tra un periodo a termine e una scontata trasformazione a tempo indeterminato. Non è stato così durante l’emergenza Covid-19 ma soprattutto non è stato così negli ultimi anni in cui, dopo il Decreto Poletti, i contratti a termine sono esplosi come modalità di prima assunzione. E allora l’incontro tra la norma liberalizzatrice (nella sua forma di ritorno al regime precedente al Decreto Dignità) e il mutato contesto economico-produttivo impongono oggi di porre l’attenzione alle transizioni occupazionali che entrano in gioco in questo scenario. Il riferimento è al fatto che il passaggio tra diversi posti di lavoro, tra lavoro e formazione, tra tipologie di contratto diverso, tra lavoro e disoccupazione sarà sempre più costante se non è accompagnato da un moderno sistema di politiche del lavoro. Per questo riaprire il cantiere del Decreto Dignità senza intervenire su strumenti che possano accompagnare i lavoratori a termine alla scadenza del loro contratto rischia di creare nuovi problemi oltre che di inasprire quei semi di conflitto sociale che da più parti stanno emergendo. Un primo passo sarebbe quello di ripristinare l’Assegno di ricollocazione per i percettori di Naspi così che una buona parte dei lavoratori a termine abbia la possibilità di essere accompagnata nella ricerca di un nuovo lavoro o in un percorso di riqualificazione.

 

Parallelamente lo strumento stesso dell’assegno deve evolversi per dare risultati migliori rispetto a quelli del passato, ma sarebbe comunque un segnale importante. Il tema della ricollocazione e della riqualificazione professionale non può però essere ignorato neanche per i lavoratori in cassa integrazione che con il blocco dei licenziamenti che sembra andare verso un miope rinnovo rischiano, in molte aziende, di prolungare una agonia che sfocia in una implicitamente annunciata fine del rapporto di lavoro. Per evitare di scoprire una amara realtà il giorno successivo alla fine del blocco sarebbe saggio investire risorse, magari dai fondi SURE, per rafforzare la formazione di questi lavoratori sospesi e accrescere il livello di capitale umano con il quale si ri-presenteranno sul mercato identificando alcuni settori specifici nei quali si ritiene, supportati da dati, che potrà concentrarsi una maggiore domanda di lavoro nel breve e medio periodo. In sostanza si tratta di non giocare una partita interamente sulla difensiva e adottando la tecnica della procrastinazione sia sul fronte dei contratti a termine che sul binomio licenziamenti e cassa integrazione. Purtroppo il testo del Decreto Rilancio in approvazione in questi giorni sembra andare esattamente in questa direzione.

 

Francesco Seghezzi

Presidente Fondazione ADAPT

@francescoseghezz

 

*pubblicato anche su ll Sole 24 Ore, 9 luglio 2020

 

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