Percorsi di lettura sul lavoro/2 – Tempo e disciplina del lavoro in Edward P. Thompson

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Bollettino ADAPT 20 maggio 2019, n. 19

 

Edward P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, Edizioni Et al., Milano, 2011

 

Il saggio di E. P. Thompson, pubblicato per la prima volta nel 1967 nella rivista Past & Present (Work-Discipline, and Industrial Capitalism), rappresenta un’opera chiave nella rappresentazione della “disciplina del tempo” nella società angloamericana. Infatti, l’opera si presenta come lo studio interconnesso tra la disciplina del lavoro, la nozione del tempo e la conseguente nascita del capitalismo industriale. Nel passaggio dalla società primitiva a quella precapitalistica, il tempo del lavoro – dapprima misurato in base al “compito” – diventerà il regolatore stesso del lavoro.

 

Rileggere questo saggio oggi, in cui la cultura del lavoro è influenzata dalla Quarta Rivoluzione Industriale, è di estremo interesse. Infatti, nella rinnovata scoperta della “centralità dell’uomo”, il suo tempo – di lavoro e di non lavoro – ha ancora un ruolo vitale nella comprensione del lavoro digitalizzato. In questo senso, il contributo di Thompson aiuta gli interlocutori nella ricostruzione delle trasformazioni in atto partendo dall’elemento che più di ogni altro circonda le esistenze umane: il tempo del lavoro.

 

Fin dall’inizio, l’autore precisa come siano stati importanti gli avvenimenti intercorsi tra il 1300 e il 1650 nella percezione del tempo. A partire dai celebri Racconti di Canterbury, il “gallo” rappresentava l’orologio naturale che indicava il trascorrere delle ore.  Poi, nell’epoca elisabettiana, il tempo dell’orologio, scandito dalle lancette meccaniche, prese il sopravvento. Con l’avanzare del XVII secolo, l’immagine dell’orologio si estese in tutto l’universo.  Già sul finire del ‘700, l’orologio, da ornamento di “lusso” si tramuta in oggetto di “utilità” fino a rappresentare uno strumento che «regolava i nuovi ritmi della vita industriale» (Thompson, 2011, p. 22).

 

Ebbene – continua l’autore – «quanto e in che modo questo mutamento nel senso del tempo incise sulla disciplina del lavoro, in che misura esso influenzò l’intima percezione del tempo da parte dei lavoratori? Se il passaggio a una società industriale matura comportò una rigida ristrutturazione delle abitudini di lavoro […] quanto di ciò è collegato al modificarsi della misurazione interiore del tempo?» (p. 5).

 

Secondo l’autore, per rispondere a tali interrogativi, non si può prescindere dalla conoscenza di come avveniva la misurazione del tempo nei popoli primitivi. Infatti, tradizionalmente, il tempo del lavoro veniva calcolato in base al ciclo naturale degli eventi all’intero dell’attività familiare. Sostanzialmente, la logica del tempo era connessa alla logica del bisogno. A mo’ di esempio si pensi all’esercizio dell’agricoltura: per gli agricoltori era naturale lavorare dall’alba al tramonto. O ancora, nell’esercizio della pesca bisognava adeguarsi alla presenza di maree che impedivano lo svolgimento dell’attività lavorativa in determinati periodi. In pratica, il tempo era connesso ai ritmi “naturali” del lavoro generando una disparità nella misurazione del tempo fra le diverse attività (p. 8). Quindi, la misurazione del tempo avveniva in base al compito da eseguire. Questo, secondo l’autore, comporta tre ordini di conseguenze: innanzitutto, il lavoratore è al servizio di una necessità e tale tempo è più appagante rispetto alla misurazione del tempo tramite orologio. In secondo luogo, il contrasto tra il “lavoro” e il “trascorrere del giorno” non era percepito in modo così evidente. Infine, per i lavoratori abituati alla misurazione del lavoro con il “tempo dell’orologio”, questo atteggiamento appariva dispendioso e poco produttivo (p. 10).

 

Il discorso cambia – rileva ancora l’autore – se si tratta di lavoro dipendente. Infatti, in questo caso è necessario rispettare “la disciplina” imposta dal padrone e il tempo si tramuta in denaro: il denaro del padrone. Pertanto, si verifica un duplice effetto. Da un lato, il lavoratore avrà una chiara demarcazione tra i “tempi propri” e i “tempi del padrone”, dall’altro lato il padrone dovrà controllare tali tempi e verificare che non vengano mal consumati.  Si ha, quindi, una chiara transizione: «non è più il compito, ma il valore del tempo tradotto in denaro che è prevalente. Il tempo è ora denaro: non viene trascorso, ma speso» (p. 11). In un certo senso, inizia a percepirsi quel senso di alienazione e piattezza del lavoro ascritto al sistema della fabbrica.

 

In ogni caso, fin quando l’attività lavorativa era gestita su scala familiare, prevaleva ancora la misurazione del tempo in base al compito. Questo generava la presenza di molti “tempi morti” e spazi di porosità nell’attività lavorativa (ad esempio il tempo trascorso nell’aspettare il materiale e quello successivo dedicato al trasporto). Non si dimentichi, inoltre, l’influenza climatica sull’andamento dei ritmi del lavoro. Pertanto, «ovunque gli uomini erano in grado di determinare i ritmi della propria vita lavorativa, periodi di lavoro intenso si alternavano a periodi di inattività» (p. 27).

 

L’autore, approfondendo tali aspetti, porta a compimento passo dopo passo il suo pensiero. Il passaggio da una società “preindustriale” ad una società industriale è un cambiamento che riguarda l’intera cultura. Infatti – continua – «la resistenza al cambiamento e l’accettazione di esso dipendono dalla cultura nel suo complesso» (p. 38). Quindi, non si tratta esclusivamente dell’implementazione di nuove tecniche di produzione che portano con sé una maggiore sincronizzazione del lavoro e la scansione dei ritmi orari, bensì si va ben oltre. Nello specifico, bisogna comprendere come tali cambiamenti siano stati percepiti dalla nuova società del capitalismo industriale.

 

Qual è il “senso del tempo”?

 

Proprio lo studio delle trasformazioni del tempo – dai ritmi naturali alle teorie sul “disciplinamento” – soccorre a comprendere meglio tali questioni. A questo proposito l’autore cita come esempio di “fusione” tra il vecchio e il nuovo il Law Book delle Fonderie Crowley, ossia un codice civile e penale redatto per “disciplinare” la forza-lavoro all’interno dell’azienda manifatturiera. In questo scenario in cui “l’economia del tempo” si diffuse un po’ ovunque, matura l’idea che «tutto il tempo deve essere consumato, venduto, utilizzato: per la forza-lavoro è sconveniente» semplicemente “passare il tempo”» (p. 56).

 

In conclusione, nell’ultima parte del saggio, l’autore afferma che la separazione fra “lavoro” e “vita” è una caratteristica tipica di tutte le società industriali. E che i sociologi del lavoro – che si dibattono sul problema del tempo libero – non comprendono in realtà «che la storia non è semplicemente una storia di cambiamenti tecnologici neutrali ed inevitabili, ma è anche una storia di sfruttamento e di resistenza a esso; e che i valori si possono perdere come guadagnare» (p. 60). Piuttosto, secondo l’autore, proprio la separazione del tempo di lavoro dal tempo libero rappresenta una debolezza dovuta alla pressione della povertà. Anzi, in un futuro automatizzato in cui minore sarà la pressione sull’identificazione del tempo libero, gli uomini dovranno “reinventarsi” al fine di “re-imparare” relazioni e attività smarrite con la società industriale (p. 63).

 

Abbattere, quindi, la netta separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita con la consapevolezza che nessuna cultura riappare con la medesima forma lasciando spazio alle “circostanze umane”. In buona sostanza – conclude l’autore – «nessun fenomeno è, come lo sviluppo economico, contemporaneamente sviluppo e cambiamento di una cultura; e la crescita di una coscienza sociale, come la crescita di uno spirito poetico, non può mai, in ultima analisi, essere pianificata» (p. 67).

 

Le questioni poste assumono particolare interesse nello studio, oggi, del tempo di lavoro. Certo è che Thompson non poteva immaginare il profondo scardinamento delle coordinate spazio-temporali della prestazione dovute alle grandi trasformazioni del lavoro. Tuttavia, il suo contributo risulta di estrema attualità. Secondo alcuni autori, tutto il tempo non è «altro che tempo di lavoro e non esiste altro tempo all’infuori di quello lavorativo». Pertanto, anche il riposo non è altro che un tempo funzionale alla produzione del lavoro (Byung-Chun Han, Nello sciame. Visioni dal digitale, Nottetempo, 2015, p. 50).

 

Ma siamo sicuri che la mancata e rigida separazione tra il tempo di lavoro e di non lavoro sia una crisi senza precedenti? O, piuttosto, trattasi di un cambiamento e come tale debba essere studiato partendo dall’accostamento della variabile del tempo con variabili diverse? In questo senso, il saggio di Thompson soccorre a mettere a fuoco le trasformazioni passate per meglio intendere quelle future.

 

Idapaola Moscaritolo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@idapaola

 

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