Percorsi di lettura sul lavoro/11 – Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale di Simone Weil

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Bollettino ADAPT 30 settembre 2019, n. 34

 

Simone Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale (1955), tr. it. Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale di G. Gaeta, Adelphi 1983

 

Il ciclo di letture sui classici del lavoro continua con il saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale” composto nel 1934 dall’allora venticinquenne Simone Weil, ed edito postumo nel 1955. Weil, segnata profondamente dall’esperienza nelle fabbriche francesi, approccia la questione operaia da un punto di vista interno, sperimentando in prima persona le dinamiche della sofferenza e dell’abbruttimento che il lavoro salariato può comportare. Il saggio espone una serie di considerazioni sui meccanismi che determinano la nascita di una società oppressiva, e cerca di delineare, seppure in forma utopica, i tratti caratteristici di una forma organizzativa libera dall’oppressione che possa fungere da modello cui adeguare la realtà.

 

Nel primo capitolo del saggio Weil si confronta con toni critici con Marx, che viene tacciato di dogmatismo. Egli avrebbe promosso una narrazione quasi mitologica della realtà, concludendo con un mondo assimilabile al paradiso terrestre abitato da uomini liberi ed eguali, finalmente sollevati dal peso del lavoro. Al contrario, Weil sostiene che lo sviluppo illimitato delle forze produttive sia privo di qualsiasi carattere scientifico; contesta l’assunto secondo il quale le forze produttive risulterebbero sempre vincitrici dai conflitti con le istituzioni sociali, così come è stato nel caso della borghesia sulla nobiltà; e critica l’idea di un progresso tecnologico illimitato. La pars destruens del saggio si conclude con la presa d’atto che «la società capitalista è ben lungi dall’aver elaborato nel suo seno le condizioni materiali di un regime di libertà e di uguaglianza.» (p. 17)

 

Si inserisce a questo punto il contributo dell’autrice: analizzare l’origine e le cause dell’oppressione sociale, e proporre un modello ideale di convivenza che esalti la libertà e la realizzazione di ciascun individuo. Se è molto raro trovare forme di società prive di oppressione, «ciò che sorprende non è che l’oppressione appaia solo a partire dalle forme più elevate dell’economia, ma che essa le accompagni sempre.» (p. 45) Secondo l’autrice, l’oppressione deriva dalla forza, ma si distingue da questa sulla base di condizioni oggettive. «La prima condizione è l’esistenza di privilegi» (p. 47), che modernamente si manifestano nei nuovi sacerdoti – gli scienziati -, o nei militari. Ma i privilegi per se stessi non bastano a determinare l’oppressione; occorre l’intervento di un altro fattore, la lotta per il potere. Prosegue Weil: «detenere un potere significa semplicemente possedere dei mezzi di azione che oltrepassano la forza così ristretta di cui un individuo dispone per se stesso. Ma la ricerca del potere […] esclude ogni considerazione di fine, e giunge, per un rovesciamento inevitabile, a prendere il posto di tutti i fini. È questo rovesciamento del rapporto tra il mezzo e il fine, è questa follia fondamentale che rende conto di tutto ciò che vi è d’insensato e di sanguinoso nel corso della storia.» (p. 54) La corsa per il potere degenera in una sostituzione dei mezzi ai fini, e il potere finisce col cedere per la propria stessa tendenza all’espansione illimitata, manifestandosi nella sua decadenza col suo volto più feroce.

 

Il contributo più prezioso del breve saggio della Weil riguarda però la costruzione teorica di una società libera. Questa non può essere intesa come semplice «assenza di ogni necessità» (p. 77): l’ideale dell’età dell’oro non è tecnicamente realizzabile, né probabilmente lo sarà mai. «Si può intendere per libertà qualcosa di diverso dalla possibilità di ottenere senza sforzo ciò che piace. […] La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l’azione.» (p. 77) Per cui sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedono tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. «Poco importa che le azioni in se stesse siano agevoli o dolorose, e poco importa anche che esse siano coronante da successo.» (p. 77) chiosa l’autrice. Il che non significa agire arbitrariamente, poiché ogni azione è inserita in un contesto di situazioni oggettive. L’uomo è limitato, ma sarebbe libero se le condizioni della sua stessa esistenza fossero il frutto della sua azione diretta dal pensiero.

 

Consapevole che la libertà appena delineata non sia altro che un ideale, Weil analizza i vari ostacoli che questa incontra nella realtà, come le dimensioni del sapere, il caso, l’inconoscibilità completa del nostro corpo e la presenza di altri uomini. Quasi mai l’azione è figlia del proprio pensiero consapevole, e quasi mai il pensiero teorico è finalizzato all’azione del soggetto che lo ha pensato. Più spesso ci si limita ad applicare degli schemi, a usare automatismi. Le macchine sono la rappresentazione emblematica di questo, e si può immaginare un modello sociale in cui tutti applichino formule matematiche per interagire. Al contrario, l’unico modo libero di produrre è quello in cui l’azione sia accompagnata dal pensiero in ogni sua fase. Così si esprime Weil a tal proposito: «l’unico modo di produzione pienamente libero sarebbe quello in cui il pensiero fosse all’opera sempre nel corso del lavoro.» (p. 90), che si traduce nella non possibilità di essere utilizzato alla stregua di una cosa. Prosegue l’autrice: «solo una simile società sarebbe una società di uomini liberi, eguali e fratelli. […] Ciascuno vedrebbe in ogni compagno di lavoro un altro se stesso collocato in un altro posto, e l’amerebbe come prescrive la massima evangelica.» (p. 96)

 

Dunque, la nuova società si fonderebbe sul lavoro inteso come valore umano, «l’unica grande scoperta intellettuale dopo il miracolo greco» (p. 106). Precisa l’autrice: «la civiltà più pienamente umana sarebbe quella che avesse al suo centro il lavoro manuale, quella in cui il lavoro manuale costituisse il valore supremo.» (p. 102). L’auspicio è che il lavoro manuale diventi il valore supremo della società avveniente, non tanto per il suo rapporto con ciò che produce, quanto per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue. In questo quadro utopistico, «i rapporti sociali sarebbero modellati direttamente sull’organizzazione del lavoro; […] ogni momento dell’esistenza offrirebbe a ciascuno l’occasione per comprendere e provare quanto profondamente tutti gli uomini siano una cosa sola; […] e in tutti i rapporti umani, dai più superficiali ai più teneri, ci sarebbe traccia di quella fraternità virile che unisce i compagni di lavoro.» (p. 105) Weil è assolutamente consapevole che si tratti di una «pura utopia» (p. 105), ma argomenta difendendo la necessità di elaborare simili formulazioni che possano svolgere una funzione normativa nei confronti della realtà.

 

Il saggio si conclude con un capitolo dedicato alla società a lei contemporanea. Il profilo tracciato rivela la straordinaria lucidità della giovane autrice, capace di intuire quale sarebbe stato il destino di lì a poco della gran parte degli stati europei. Il rovesciamento fra mezzi e fini, caratteristico di ogni società oppressiva, invade ogni aspetto della vita: «lo scienziato non fa più appello alla scienza con lo scopo di arrivare a vedere più chiaramente nel proprio pensiero, ma aspira a conseguire dei risultati che possano aggiungersi alla scienza costituita. Le macchine non funzionano più per permettere agli uomini di vivere, ma ci si rassegna a nutrire gli uomini affinché servano le macchine. Il denaro non offre un procedimento comodo per scambiare i prodotti, è piuttosto il flusso delle merci a costituire un mezzo per far circolare il denaro.» (p. 112) Il sistema capitalistico persegue ormai solo la distruzione; il lavoro è visto come una schiavitù e il denaro come un favore, per cui si viene pagati per la propria fatica quel tanto che basta per potersi permettere qualche istante di ricchezza. In questo quadro, Weil è stata estremamente lungimirante nel capire come si sarebbe imposto il modello neoliberista dell’”operaio imprenditore di se stesso”. L’unico modo per liberare la società europea che si affacciava agli anni ’30 sarebbe stata l’instaurazione di una cooperazione metodica di tutti, deboli e potenti.

 

Le “Riflessioni” possono essere lette come un’esortazione lanciata all’umanità affinché si riappropri di se stessa. Il saggio si apre con queste parole, di straordinaria attualità: «Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. […] Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve, un posto.» (p. 11)

 

Il tema del lavoro riveste un ruolo centrale nella riflessione filosofica di Weil e nella sua stessa esistenza, già a partire dalla tesi di laurea del 1929in cui il lavoro si presenta come il trait-d’union fra il pensiero e l’azione, fra la parte passiva dell’uomo, e quella attiva.

 

L’esperienza nelle fabbriche francesi degli anni ’30 fanno maturare in Weil la volontà di opporre alla realtà lavorativa sperimentata, basata sul mero profitto di pochi a discapito di molti, un mondo del lavoro ideale, in cui il lavoro torni ad essere espressione del libero pensiero e della libera azioni degli individui. «Quale meravigliosa pienezza di vita ci si può attendere da una civiltà in cui il lavoro fosse sufficientemente trasformato da esercitare appieno tutte le facoltà, da costituire l’atto umano per eccellenza? Esso dovrebbe trovarsi al centro stesso della cultura.» (p. 103)

 

Se consideriamo l’intero corpus di opere di Weil, si evince che ciò che salverà davvero l’uomo dall’imbruttimento delle fabbriche è la bellezza. L’auspicio, quanto mai calzante oggi, è quello di far entrare la bellezza nei luoghi di lavoro, trasformandoli, esteticamente ed architettonicamente, in ambienti rispettosi dei ritmi biologici e del benessere fisico e psicologico del lavoratore. Fare della fabbrica un luogo di scambio umano e culturale, di formazione, di crescita professionale e personale attraverso servizi sociali pensati per gli operai e per le loro famiglie: biblioteche, centri di formazione, asili per i figli dei dipendenti, alloggi, spazi ricreativi per il tempo libero. I lavoratori non hanno bisogno soltanto di pane, di un contratto di lavoro e di un salario: arte, di cultura, di istruzione, strumenti che aiutino a sviluppare il pensiero. Solo così gli uomini potranno realizzare il loro essere più autentico.

 

Cecilia Leccardi

ADAPT Junior Fellow

@CeciliaLeccardi

 

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