Per un sistema di istruzione e formazione professionale/5 – L’esperienza di Fondazione Ikaros. Intervista a Filippo Emiliani

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Bollettino ADAPT 29 giugno 2020, n. 26 

 

In questi giorni si discute molto sulla riapertura delle scuole a settembre, in attesa delle disposizioni per la ripresa delle attività didattiche in sicurezza che la Ministra Azzolina non ha ancora emanato.

Il sistema scolastico italiano, però, non è fatto solo dai percorsi d’Istruzione regolamentati dal Ministero, ma anche dai corsi di Istruzione e formazione professionale (IeFP) di competenza regionale.

Poco considerati nel dibattito pubblico e spesso sconosciuti dalle famiglie i centri di formazione professionale (CFP), che erogano questi corsi, hanno dimostrato di sapersi adattare in maniera flessibile e creativa alla situazione inedita causata dalla pandemia.

Lo dimostra l’attività del CFP Istituto Politecnico di Grumello del Monte (Bergamo), ente gestito da Fondazione Ikaros che offre corsi triennali e quadriennali IeFP nei settori tecnologico, agroalimentare, del benessere e amministrativo. Lo si apprende dalla testimonianza di Filippo Emiliani, direttore del Centro che abbiamo intervistato.

 

Dott. Emiliani, che impatto ha avuto la pandemia sulle attività del vostro CFP?

 

F. Emiliani: Prima di rispondere a questa domanda devo fare una premessa. La pandemia prima che sulle nostre attività scolastiche e lavorative ha avuto un impatto sulla nostra vita in generale. Benché la tentazione fosse quella di partire quanto prima con l’operatività, un’opportunità che non volevamo sprecare, di fronte all’esperienza straordinaria che stavamo vivendo, era quella di interrogarci. Ecco perché la Direzione, prima ancora di concentrarsi sul ripristino delle attività formative del Centro, ha voluto offrire la possibilità ai propri dipendenti e collaboratori di riflettere su quello che stava accadendo. Si è deciso così fin da subito e nei mesi a seguire di incontrarsi in plenaria una volta a settimana per dare a ciascuno la possibilità di raccontare l’esperienza che stava vivendo durante l’emergenza sanitaria. Dentro la drammaticità delle circostanze abbiamo voluto dare la certezza di un’opportunità: quella di riguadagnare per noi stessi il senso del nostro lavorare e vivere insieme.

Per quanto riguarda la didattica con i nostri studenti, per ovvie ragioni, da fine febbraio le attività in presenza sono state sospese. Non però il percorso formativo degli allievi.

Durante la prima settimana di chiusura abbiamo cercato di mantenere un contatto con loro, anche solo telefonicamente o tramite mail.

Già a partire dalla prima settimana di marzo, posto che la nostra principale preoccupazione non era il completamento di quanto previsto in sede di programmazione didattica, bensì il mantenimento della relazione educativa con i ragazzi, abbiamo avviato percorsi didattici utilizzando la piattaforma Microsoft Teams.

Per ciascuna delle nostre trenta classi è stato aperto uno spazio specifico sulla piattaforma, a sua volta suddiviso in sotto-canali, tanti quanti le discipline di insegnamento. Inizialmente abbiamo proposto alle classi attività didattiche per 15 ore a settimana, poi, nel mese di aprirle, 25, in maggio e giugno ci siamo attestati sulle 20 ore a settimana, perché, dopo vari tentativi, ci era sembrata la quota oraria ideale per mantenere alta la concentrazione degli allievi ed efficace l’intervento educativo.

 

Quali metodologia hanno adottato i formatori per favorire l’apprendimento degli allievi?

 

F. Emiliani: prima ancora che esplodesse l’epidemia di Covid-19 i nostri docenti, che provengono per il 75% dal mondo del lavoro, normalmente evitano la lezione frontale classica, (il formatore spiega e lo studente apprende). Senza dubbio per trovare alternative praticabili, vista la situazione, le tecnologie digitali sono state di grande aiuto. Da questo punto di vista, avevamo un grosso vantaggio: i nostri allievi e docenti sono tutti dotati di Ipad, che possono acquistare a prezzo agevolato direttamente dalla scuola.

Le attività a distanza erano generalmente basate sulla realizzazione di project work finalizzati alla creazione di prodotti multimediali. L’articolazione della proposta didattica ha seguito il principio della flipped classroom. Da remoto è infatti quasi impossibile proporre spiegazioni come in presenza, giacché non si può avere un riscontro immediato del grado di attenzione e comprensione del proprio uditorio.

Le lezioni erano dunque impostate secondo questo schema: all’inizio della mattinata il formatore incontrava la classe a cui proponeva un briefing iniziale, dopodiché assegnava un compito agli studenti, i quali, o individualmente o in gruppo, lo eseguivano durante la giornata. Alla fine della giornata tutti gli studenti della classe e il formatore si ritrovavano per una verifica e un giudizio sul lavoro svolto. L’intera attività si sviluppava per un arco temporale di 8 ore.

L’emergenza in questo senso è stata utile per sperimentare in modo sistematico quello che abbiamo sempre ritenuto essere, in qualsiasi circostanza, il metodo di insegnamento migliore, ossia la scansione del processo di apprendimento in tre fasi: ipotesi, verifica e giudizio.

Le circostanze ci hanno inoltre reso molto più essenziali sia nei modi sia nei contenuti.

Infine, la sospensione è stata l’occasione per invitare più spesso imprenditori e professionisti nelle videoconferenze delle nostre classi. In tempi normali non è sempre facile organizzare le testimonianze aziendali, a motivo degli impegni lavorativi dei nostri ospiti.

 

Potrebbe spiegarci meglio come funzionavano i project work?

 

F. Emiliani: glielo spiego con qualche esempio. Agli allievi dell’indirizzo grafico è stato chiesto di sviluppare una app oppure di progettare un sito web per un’azienda (in questo caso si trattava di una commessa esterna) o ancora di creare un gioco per smartphone. A quelli dell’indirizzo ristorazione è stato proposto di realizzare, in collaborazione con una casa editrice, un ebook di ricette contenente dei video illustrativi.

Le attività giornaliere, individuali o di gruppo, finalizzate alla creazione del prodotto o di sue parti – come le dicevo – erano organizzate secondo la modalità flipped. Il tutto avveniva su piattaforma, dal briefing iniziale alla verifica finale in plenaria. Gli studenti creavano canali ristretti per interagire nei rispettivi gruppi di lavoro. Ovviamente qualora avessero avuto bisogno di un supporto, potevano contattare il docente, che interveniva sul loro canale per aiutarli. Ogni venerdì si organizzava poi un momento di verifica collettivo, durante il quale una commissione valutava i lavori realizzati dagli studenti durante la settimana.

 

È stato difficile coinvolgere gli allievi e le allieve nelle attività di project work, non avendoli fisicamente in aula?

 

F. Emiliani: può suonare strano, ma questo è stato abbastanza semplice. Ragazzi e ragazze hanno partecipato con entusiasmo, perché avevano voglia di interagire con i propri compagni e i loro docenti. Molti di loro durante le settimane del lockdown hanno addirittura espresso il desiderio di tornare a scuola. Poi, da quando è stato di nuovo possibile uscire, alcuni hanno cominciato a ritrovarsi proprio fuori dalla nostra sede. Secondo me, la cosa riflette il desiderio non solo di relazionarsi con i propri coetanei, ma anche di stare vicini ad un luogo importante per la loro vita come la scuola.

 

Dal punto di vista contrattuale come è stato possibile affidare ai docenti la gestione dei project work, visto che queste attività – in base alla sua descrizione – prevedevano una disponibilità di tempo più flessibile rispetto al consueto orario di cattedra?

 

F. Emiliani: i nostri formatori hanno un contratto di quaranta ore settimanali. All’interno di questo monte ore sono comprese le lezioni, assegnate tramite incarico specifico, e tutte le attività funzionali alla didattica organizzate dal Centro: il tutoraggio, i progetti extracurricolari o altro come, appunto, l’accompagnamento degli studenti nella realizzazione dei project work.

Fermo restando il tetto massimo della quaranta ore settimanali, i docenti sono disponibili a svolgere, secondo un piano predisposto in anticipo, attività che variano a seconda delle esigenze didattiche e organizzative della scuola e che sono normalmente identificate per obiettivi.

 

Il vostro Centro organizza attività di formazione continua per i docenti?

 

F. Emiliani: sì. Anzitutto, abbiamo un piano di formazione interna, che prevede seminari tenuti da colleghi esperti, dal presidente della Fondazione, dai direttori dei vari Centri, quindi da risorse interne.

Poi, da settembre, avvieremo percorsi formativi personalizzati. Mi spiego. Considerati i bisogni formativi del singolo docente, lo si accompagna a raggiungerli attraverso attività specifiche. Ogni docente ha la facoltà di proporre corsi di formazione inerenti al proprio insegnamento, il Centro può decidere di coprire i costi di iscrizione chiedendo in cambio di continuare a collaborare con la scuola per periodo di tempo definito, in modo tale che i saperi e le competenze maturate vengano messe a disposizione del Centro.

 

Come sono stati gestiti i tirocini curricolari durante la pandemia?

 

F. Emiliani: i tirocini in corso sono stati sospesi. Fortunatamente per la maggior parte dei ragazzi il tirocinio curricolare era già stato concluso prima che scoppiasse la pandemia. In ogni caso, la Regione ha concesso una deroga al numero minimo di ore da trascorrere on the job. Le attività formative presso l’ente ospitante sono state sostitute con quelle di project work a distanza con i nostri formatori.

I tirocini nel settore florovivaistico, che dopo la fine del lockdown ha avuto una vera e propria esplosione di lavoro, a giugno erano già ripartiti.

 

Come si immagina lo svolgimento del prossimo anno formativo?

 

F. Emiliani: fermo restando il rispetto di tutte le norme di sicurezza, la nostra speranza è che si possa tornare a scuola. La presenza è indispensabile per garantire un accompagnamento educativo completo.

 

Che ruolo pensa possa ricoprire l’istruzione e formazione professionale nel rilancio dell’occupazione e dell’economia che ci attende?

 

F. Emiliani: la pandemia ha solo reso più evidente la necessità di una sinergia sempre più stretta fra la scuola e il mondo del lavoro. Questa dimensione era coltivata dalla nostra scuola già da tempo, ben prima che conoscessimo il Covid-19. Il nostro Centro, ad esempio, cambia la propria ogni anno la programmazione didattica, confrontandosi con le aziende con cui collabora.

 

Perché secondo lei l’emergenza sanitaria ha reso ancora più necessaria questa alleanza con il mondo del lavoro?

 

F. Emiliani: la pandemia ha chiesto alle aziende maggior flessibilità e capacità di risolvere problemi prima sconosciuti. Ciò significa che le scuole sono sfidate ancor più di prima ad aiutare i propri studenti a sviluppare le c.d. soft skills (in particolare flessibilità e problem solving). Questo impone di prevedere nei percorsi formativi una quota sempre maggiore di esperienze on the job, scambi con il mondo aziendale ecc. Perché solo nel reale contesto lavorativo si possono sviluppare quelle competenze trasversali che ho appena citato.

 

Dopo lo shock economico e occupazione generato dalla pandemia, prevedete di progettare ex-novo corsi destinati alla formazione di nuove figure professionali?

 

F. Emiliani: senz’altro dovremo inserire nei vecchi corsi alcuni moduli formativi nuovi. Ad esempio, nell’indirizzo informatico sta emergendo sempre di più l’esigenza di preparare i ragazzi alle competenze legate all’e-commerce e al digital marketing. Nell’indirizzo grafico è oramai indispensabile insegnare come si gestisce la comunicazione social. Per l’indirizzo elettronico penso a tutto quello che concerne l’automazione avanzata connessa ad industria 4.0, che, dopo la pandemia, le imprese, volenti o nolenti, dovranno adottare in maniera sempre più massiccia. Anche nell’indirizzo della ristorazione stanno emergendo bisogni formativi nuovi: per aprire un ristorante oggi non basta più una formazione incentrata su cucina e preparazione pasti, servono competenze comunicative. Ecco perché noi stiamo già inserendo moduli sulla comunicazione sui social network anche nei corsi destinati ai nostri cuochi.

 

Quali sono, a suo parere, i fattori che penalizzano una scuola come la vostra? Come risolverle?

 

F. Emiliani: ne vedo fondamentalmente tre. La prima è la mancanza nell’IeFP di un titolo equipollente al diploma di istruzione. Tale equiparazione è importante, perché le famiglie – e anche le imprese –attribuiscono grande valore a questo titolo. Molto aziende per assumere un giovane ancora oggi gli chiedono il diploma d’istruzione. Senza contare la possibilità di accedere all’Università, cosa possibile a chi possiede un diploma d’istruzione, ma non ha chi ha un certificato Ifts. Questo condiziona molto le famiglie quando si tratta della scuola secondaria.

Il secondo fattore che ci penalizza è la mancanza di un sistema di Istruzione e formazione professionale uniforme a livello nazionale. ciò fa sì che la IeFP non sia vista come un sistema formativo di pari dignità rispetto all’istruzione di competenza statale.

Il terzo è la lentezza con cui viene rivisto il Repertorio delle figure nazionali per le qualifiche e diplomi professionali. Un repertorio aggiornato, al passo coi tempi, è indispensabile per avere un sistema formativo che sappia rispondere alle trasformazioni del mondo del lavoro.

 

In due parole: nonostante queste criticità, perché conviene scegliere i percorsi di istruzione e formazione professionale?

 

F. Emiliani: perché il nostro sistema produttivo ha bisogno di operatori e tecnici come quelli formati dall’IeFP, di profili pronti ad entrare nel mondo del lavoro (flessibili, capaci di risolvere problemi, di lavorare in gruppo ecc) e con competenze tecniche specifiche.

 

Paolo Bertuletti

Assegnista di ricerca

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@PaoloBertuletti

 

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