Patto sociale, tra il dire e il fare ci sono di mezzo le pensioni*

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Bollettino ADAPT 2 novembre 2021, n. 38 

 
Veniamo da quasi due anni di continue invocazioni a più voci per un “Patto sociale“, con sue varie declinazioni. Parola alquanto inflazionata se pensiamo che dall’apertura degli Stati Generali voluti dal governo Conte bis ad oggi, oltre allo stesso Giuseppe Conte, ne hanno invocato uno l’allora ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, l’attuale ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta, e a più riprese i leader delle maggiori parti sociali: i segretari dei sindacati confederali (Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo prima, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri poi), e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Quest’ultimo anche di recente, durante l’assemblea dell’associazione di Viale dell’Astronomia alla quale aveva presenziato anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi aggiungendo il suo auspicio. “Io preferisco parlare di prospettiva economica condivisa” aveva detto il premier.
 
In effetti è già la questione lessicale a tradire il fatto che dietro l’insistente ricerca discorsiva di un qualche patto ci siano in realtà divergenze difficili da convertire. D’altronde a fare un distinguo più deciso era stato il leader della Cgil Maurizio Landini: “Patto non so cosa significhi”. Se si eccettua la firma del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale (un episodio isolato in termini di clima, che non riguarda inoltre un patto tra parti sociali e politica, ma tra le rappresentanze dei lavoratori della PA e il datore di lavoro pubblico) nei discorsi di Landini degli ultimi due anni la parola “patto” non si trova mai. Sostituita invece dalla proposta di un nuovo “modello di sviluppo”, non importa se condiviso o non condiviso, perché “Non si cambia il Paese senza o contro il mondo del lavoro”.
 
Ed era osservando i discorsi seguenti dello stesso Landini che si poteva avere miglior presagio del fatto che l’autunno 2021 avrebbe visto sgonfiarsi l’enfasi sulle possibilità di un Patto. Perché preannunciavano tensioni proprio su uno dei temi, se non il tema, sul quale si gioca la sostenibilità del sistema pubblico di welfare e delle politiche del lavoro (per questo causa frequente nella storia italiana della caduta dei governi) e sul quale quindi si dovrebbe misurare la capacità delle forze in campo di addivenire ad un disegno condiviso. Già il 25 settembre scorso il leader della confederazione di Corso Italia annunciava che se il governo non avesse dato le risposte cercate sul tema delle pensioni, si sarebbe andati incontro ad una mobilitazione. Concetto ribadito più volte fino all’altro ieri, ossia ancora prima dell’incontro con il governo in vista dell’avvio del percorso parlamentare della legge di bilancio. Sul banco le ipotesi di superamento di Quota 100, le proposte di nuove quote, un accordo che non c’è e il rischio concreto di una conclusione non condivisa. Se ci aggiungiamo il dietrofront del vicepresidente di Confindustria Maurizio Stirpe che nei giorni scorsi ha dichiarato “impossibile ” un Patto per l’Italia in questo momento, pare chiaro come si sia entrati in una fase diversa.
 
Ora, è evidente la difficoltà della politica e del sindacato nel riuscire a costruire insieme una quadra tra le giuste e necessarie esigenze di una sostenibilità del lavoro in età avanzata (dove gli strumenti per il pensionamento anticipato diventano una via di uscita), la scarsità di risorse finanziarie, i bassi (bassissimi) tassi di fecondità dell’ultimo ventennio, il tasso insufficiente di occupazione (per cui mediamente ogni persona che lavora ne deve mantiene altre due) e la questione salariale delle nuove generazioni. Tutti fenomeni ed istanze che spesso oggi convivono all’interno di una singola famiglia. Ma è anche evidente la difficoltà degli attori politici e sindacali nel comunicare questa ricerca e quindi la difficoltà a resistere alle soluzioni di consenso immediato, che rischiano di riproporre tra qualche decennio i problemi causati proprio dalla gestione delle politiche pensionistiche condotta decenni addietro.
 
Proprio su questo capitolo era da verificare la possibilità di una convergenza storica. E se è vero che tecnicamente la “concertazione”, la “democrazia negoziale”, il “contratto sociale”, ossia le specificazione date di volta in volta negli scorsi mesi ai vari appelli per un Patto, sono concetti tecnicamente distinti, è interessante notare come si abbia avuta oggi conferma di un fenomeno ricorrente nel linguaggio delle relazioni pubbliche tra le rappresentanze sociali: le buone relazioni generiche si invocano e si dichiarano a parole tra le parti quanto meno sono raggiungibili sul piano delle scelte concrete. Cosicché l’auspicio continuo di buoni rapporti ed intenti condivisi diventa una spia dei momenti di crisi e di stallo. Come quello che si osserva in materia di ammortizzatori sociali, dove si va verso una stabilizzazione dell’espansione degli ammortizzatori realizzata durante l’emergenza mentre un disegno unitario per le politiche attive, altro mantra dell’agenda delle politiche del lavoro che avrebbe dovuto permettere di superare il blocco dei licenziamenti per tutte le imprese, muove solo i primi passi. Insomma, dietro la sinfonia del grande patto (“Concertazione e accordo sono parole del linguaggio musicale” ricordava Tommaso Padoa Schioppa), si trova una transizione delle politiche del lavoro che, pur sospinta dalle necessità della pandemia, ha ritmi lenti e una visione non intenzionalmente condivisa. La speranza è che possa essere l’interpretazione delle opportunità offerte dal Pnrr che viene dal basso a realizzare un rilancio nei territori e nelle comunità.
 
Francesco Nespoli
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Franznespoli
 
* pubblicato anche su HuffPost col titolo Dopo anni di sterili invocazioni, il Patto piange, 27 ottobre 2021
 

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