Onere probatorio e discriminazioni sui luoghi di lavoro: verso una forma di tutela sostanziale?

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Lo scorso 11 settembre il Tribunale di Ferrara si è pronunciato in una sentenza relativa al caso di una lavoratrice ricorrente in giudizio per presunti motivi discriminatori. La stessa, infatti, denunciava episodi di molestie, mobbing ed atteggiamenti ritorsivi da parte dell’azienda di appartenenza, culminanti in una forma di discriminazione retributiva, disparità di trattamento nelle condizioni di impiego e, infine, un demansionamento. Di fatto, solo quest’ultimo è stato riconosciuto sussistente dall’organo giudicante, in quanto le ragioni addotte dal convenuto in fase istruttoria sono state ritenute sufficienti a spiegare e smentire i motivi discriminatori riportati da parte ricorrente.

 

La vicenda appare particolarmente interessante sotto due profili: in primis perché racchiude al suo interno una serie di eventi diversificati che vanno a tratteggiare il complesso quadro delle fattispecie riconducibili al fenomeno discriminatorio; in secondo luogo, in quanto dal caso emerge la problematica forse più delicata di questo ambito del contenzioso giuslavoristico, quella relativa all’onus probandi. Senza dubbio i due aspetti si vanno ad influenzare vicendevolmente, in quanto i meccanismi discriminatori risultano tanto più difficilmente rilevabili quanto più la loro natura appare complessa e sfaccettata. Tuttavia la ratio dello strumento processuale tiene in considerazione la posizione delle parti in causa, più che i contenuti oggetto di prova.

 

Infatti il factum probandum il più delle volte non risulta evidente o suscettibile di prova diretta, con l’effetto di produrre uno squilibrio tra le parti per quanto concerne la disponibilità dei mezzi di prova. Al fine di ovviare a questa criticità, è stato concepito un meccanismo probatorio “alleggerito”, consistente nell’allegazione della prova dell’insussistenza del fatto discriminatorio da parte del convenuto. L’art. 40 D. lgs. 198/2006 prescrive poi, a carico del ricorrente, l’allegazione di “elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (…)”.

 

Il fatto che non ricorra nella prescrizione normativa il requisito della gravità, tipico del meccanismo delle presunzioni, porta a concludere che l’ammissione della prova si basi su un criterio probabilistico/di verosimiglianza, piuttosto che su un meccanismo di prova piena. L’agevolazione in questione mira a rendere possibile la rilevazione dell’illecito a carattere discriminatorio anche ove esso non risulti immediatamente identificabile.

D’altra parte, la normativa si limita a porre l’onere della prova in capo al convenuto, senza però indicare puntualmente “cosa” vada provato e “come”. Nel caso di discriminazione diretta, si dovrà dimostrare che il fatto/atto/patto posto in essere non è basato su motivi discriminatori; nel caso di discriminazione indiretta, invece, dovrà essere provata la giustificazione di carattere oggettivo su cui si basa il suddetto, per poi procedere ad una sua valutazione sulla base del principio di proporzionalità. In altri termini, ciò che dovrà essere dimostrato è la presenza di un obiettivo legittimo alla base dell’attuazione della disparità di trattamento e il suo perseguimento mediante mezzi appropriati e necessari.

 

Da qui il carattere “ibrido” del regime probatorio e le relative critiche provenienti da varie correnti giurisprudenziali e dottrinali. Secondo alcuni, infatti, tale impostazione rischia di rendere pressocché impossibile la rilevazione di discriminazioni ad opera di parte datoriale.

 

La debolezza di questa prospettiva risulta dal fatto che il problema alla base di questo regime probatorio non è da identificarsi nel modo in cui esso risulta concepito e strutturato. Piuttosto esso discende, a monte, da un mancato focus sulla violazione della dignità umana, tipica di un comportamento a disparità di trattamento ingiustificata. Infatti, la difficoltà nel rilevare l’illecito a carattere discriminatorio è riconducibile in primo luogo alla necessità di bilanciamento tra il diritto di iniziativa economica privata e quello di uguaglianza sostanziale. Quest’ultimo, essendo un concetto intrinsecamente relativo e rimettendosi in termini di valutazione ad un piano di comparazione, finisce spesso per soccombere rispetto al diritto tutelato ex art. 40 Cost.

 

Forse risulterebbe più semplice indagare il verificarsi di una discriminazione ove ci si rifacesse al disvalore tipico di questo tipo di violazioni, consistente nell’infrangersi della dignità e della libertà della persona. Il meccanismo di prova del resto altro non è che strumento processuale volto a facilitare, in fase istruttoria, la verifica dei presupposti discriminatori al fine di garantire il principio di diritto secondo cui “ubi ius, ibi remedium”. Il bilanciamento tra i diritti delle parti, quindi, non potrà necessariamente dipendere da un mezzo di carattere procedurale, bensì dalla concezione giuridica sostanziale del disvalore discendente dalla violazione.

 

Federica De Luca

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@0FedericaDeLuca

 

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Onere probatorio e discriminazioni sui luoghi di lavoro: verso una forma di tutela sostanziale?
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