Oltre i numeri, cosa è mancato al Jobs Act

Con la caduta del governo Renzi ha ripreso vigore il dibattito sul Jobs Act. Dibattito caratterizzato oggi da molte critiche e anche da rapidi riposizionamenti da parte di chi ne era stato convinto sostenitore nel momento della sua presentazione. Due fattori su tutti sembrano incidere nel giudizio.  Il primo è il rallentamento del trend positivo dei nuovi occupati negli ultimi mesi del 2016 e la nuova impennata dei contratti a termine certificata dall’INPS due giorni fa, che portano i critici dell’ultima ora a cadere nel tranello di valutare riforme del diritto del lavoro sulla base dei risultati occupazionali di breve periodo. Il secondo è il passo lento delle politiche attive e di ricollocazione viste dai più come il tassello che al momento manca alla riforma e sul quale occorre dunque accelerare. Ma non è solo una questione di numeri, che in un’era di post-verità possono essere facilmente utilizzati per sostenere un successo o un fallimento. Molto più interessante è oggi riflettere sulla portata della riforma rispetto ai grandi cambiamenti della economia e della società e a quella che, giustamente, alcuni già definiscono come la nuova geografia del lavoro.

 

Da questo punto di vista il dibattito sul Jobs Act, ravvivato anche dalla proposta di referendum della Cgil, sembra essersi posato nel lungo letto del fiume delle riforme del lavoro nel nostro Paese. Un processo alluvionale e poco ordinato, segnato da continui stop and go come dimostra il progetto di legge sul lavoro autonomo di nuova generazione, da tempo caratterizzato da infinite discussioni che comprimono i delicati temi occupazionali e la stessa idea del lavoro in un arido scontro su formalismi giuridici e dati statistici. A ben vedere questo dibattito è figlio del Jobs Act e della sua impostazione di fondo, sapientemente costruita anche a livello comunicativo, circa la possibilità di rendere i posti di lavoro più stabili proprio nel momento in cui veniva cancellata la disposizione simbolo della sua effettività sul piano giuridico e cioè l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Invece di riconoscere la grande trasformazione del lavoro e il superamento della idea di “posto di lavoro”, il Jobs Act ha rivitalizzato i concetti cardine del Novecento industriale.

 

E però quel mondo antico oggi non c’è più. Emergono nuove diseguaglianze e povertà e si diffondono nuovi modelli produttivi su piattaforme cooperative in un contesto di spinta tecnologia e invecchiamento della popolazione che rende deboli proposte legislative incentrate sul modello fordista del lavoro dipendente. Il vero limite del Jobs Act sembra in effetti proprio quello di aver ignorato questo nuovo contesto economico e sociale costruendo una riforma sull’impalcatura antica che ha alla base la netta divisione tra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo, ignorando che oggi la zona grigia tra questi due mondi è popolatissima di persone che possono e vogliono lavorare con più autonomia, come collaboratori di più imprese, preferendo essere retribuiti a risultato piuttosto che attraverso la logica dell’orario di lavoro.

 

In questo senso anche l’appello ad accelerare sulle politiche attive pare in parte miope. Nella nuova geografia del lavoro viene meno il passaggio da “posto” a “posto” mentre logiche di impresa si sviluppano a rete, nei territori e nelle aree urbane, in cooperazione con le istituzioni formative all’interno di transizioni che portano da periodi di lavoro a periodi di formazione, passando per periodi di pausa o di disoccupazione. Il fatto che tutto questo possa sembrare uno scenario strano, o immediatamente dipinto come mancanza di stabilità, prospettiva, futuro è indice di quanto ancora siamo distanti concettualmente da una realtà che già ci supera. E per entrare in questa realtà servono strumenti e tutele nuove, che passano sì da politiche del lavoro ma che non mettano al centro l’efficienza dei mercati, ma la persona stessa del lavoratore che oggi più che mai significa competenze, attitudini, capacità di imparare, autonomia e responsabilità.

 

Non si tratta di immaginare un futuro roseo, ma di farsi carico delle sfide del presente. Il dibattito sul Jobs Act può essere utile solo se ha questa come preoccupazione principale. Un grande sforzo collettivo per capire come sta cambiando il mondo e per impegnarsi insieme a governare e ad indirizzare il cambiamento rimettendo al centro anche il valore della rappresentanza duramente colpito dall’iter di approvazione del Jobs Act. Perché sia chi crede che il progresso sia un destino di fronte al quale possiamo solo essere spettatori e sia chi crede che il passato è l’unico schema da conservare oggi si perde il meglio, ossia essere vero protagonista di un futuro del lavoro che è più che mai nelle nostre mani.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

*Pubblicato anche su Avvenire, 25 febbraio 2017

 

Scarica il PDF 

Oltre i numeri, cosa è mancato al Jobs Act