Nuove politiche occupazionali per contrastare il preoccupante “depauperamento” del capitale umano nel Mezzogiorno

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Anche quest’anno, come ogni anno, la SVIMEZ pubblica il Rapporto annuale sull’economia del Mezzogiorno. Si tratta di una puntale analisi sull’andamento economico dell’Italia meridionale, che non trascura nessun aspetto: dall’andamento generale dell’economia, passando per i vari settori produttivi, fino a giungere agli aspetti demografici, non mancando di attenzionare il mondo del lavoro e l’andamento occupazionale.

 

Come è possibile apprendere già dalle slides di presentazione del Rapporto, il 2016 ha mostrato tenui aspetti positivi per quanto riguarda l’andamento occupazionale: nella media del 2016, infatti gli occupati al Sud aumentano di 101 mila unità, pari al +1,7%, facendo registrare una crescita percentuale superiore finanche rispetto a quella del Nord (+1,2%), dati che si allineano a quelli già positivi dell’anno precedente.

 

Nonostante da questa prima lettura sembra possa scorgersi qualche segnale positivo, occorre comunque guardare questi trend con cauta prudenza e con critica attenzione. Infatti, è necessario mettere in evidenza come la situazione economica, occupazionale e sociale meridionale sia tutt’altro che positiva, testimoniata – in primo luogo – dal tasso di occupazione che resta ben lontano sia dal tasso medio europeo, sia dai livelli di occupazione pre-crisi. Guardando, poi, alla qualità e alla struttura dell’occupazione, gli incrementi occupazioni hanno riguardato soprattutto forme lavorative di tipo part-time c.d. “involontario”. Significativa è anche la questione generazionale: il tasso di occupazione dei giovani under 35 è, infatti, fermo al 28%, rappresentando di fatto un dato unico in tutta Europa.

 

Ma un’attenzione particolare va posta anche sull’andamento demografico e migratorio, il quale mette in luce, in maniera indiretta, la situazione di difficoltà in cui si trova oggi il mercato del lavoro delle regioni meridionali. Negli ultimi quindici anni, sono emigrati dal Sud circa 1,7 milioni di persone, a fronte di un milione di rientri, con una perdita netta di 716 mila unità. La maggior parte di essi (72,4%) è rappresentata da giovani tra i 15 e i 34 anni e, di questi, circa 200mila (quasi un terzo) sono laureati. La continua “emorragia” di giovani risorse umane dal Sud è dovuta a numerosi fattori, tra i quali spicca “l’insufficiente dotazione di capitale produttivo dell’area che si traduce in una carente domanda di lavoro, che non favorisce l’impiego delle giovani generazioni formate nei percorsi di istruzione anche avanzati”. Provando a calcolare stime attendibili della perdita netta in termini finanziari del flusso di emigrazione meridionale qualificata, la SVIMEZ afferma che vista la “perdita di circa 200 mila laureati meridionali, moltiplicata (…) per il costo medio a sostenere un percorso di istruzione terziaria, la cifra (ricapitalizzata nel periodo) ammonterebbe a circa 30 miliardi di euro”. Senza tenere conto dei tanti che, pur risultando residenti nel Mezzogiorno, rappresentano di fatto dei “pendolari di lungo raggio”, vivendo stabilmente nel Centro-Nord dove lavorano (nel 2016 sono stati oltre 50 mila laureati). Si tratta di numeri impietosi, che acuiscono il divario tra le due aree del Paese, con il Centro-Nord che guadagna in termini di competitività e di produttività grazie al trasferimento di forza lavoro qualificata, e che si traducono in una preoccupante perdita e in un “depauperamento del capitale umano meridionale”.

 

Dietro questo significativo dato si cela l’esigenza di nuove e più puntuali politiche occupazionali e del lavoro, capaci di valorizzare maggiormente i giovani laureati meridionali. Innanzitutto sono auspicabili interventi che sappiano tessere fitti rapporti tra il mondo della formazione universitaria e quello del lavoro. Dietro la “fuga dei cervelli” dal meridione, infatti, spesso si nasconde l’assenza di un efficace coordinamento dei percorsi di alternanza tra università e mondo del lavoro. Su questo, pesa sicuramente molto la carenza di fondi da parte dello Stato centrale, i cui finanziamenti sono stati alquanto ridimensionati da oltre un decennio, incrementando ulteriormente le difficoltà economiche cui si trovavano già a fronteggiare gli atenei meridionali. Sarebbe inoltre auspicabile utilizzare di più e meglio gli strumenti esistenti – si pensi ai contratti di apprendistato di terzo livello, ad esempio – per valorizzare a pieno i giovani laureati e provare a inserirli nel contesto produttivo meridionale.

 

In secondo luogo, va messa in evidenza l’assenza di un ricco e maturo tessuto di aziende nel Mezzogiorno. Occorre a tal proposito una nuova politica meridionalista, che sia capace di superare le fallimentari esperienze del secondo dopoguerra – l’intervento straordinario e la Cassa del Mezzogiorno, in primis – e che sappia, piuttosto, offrire occupabilità e stimolare l’imprenditorialità giovanile. Che sia capace, in pratica, di offrire nuove e più efficaci opportunità, in linea con le peculiarità tipiche meridionali e capaci di valorizzare le potenzialità locali. Interventi che, se ben implementati, possono contribuire a creare quel valore aggiunto capace di valorizzare il capitale umano dei giovani laureati ed essere, quindi, validi strumenti per mitigare l’emigrazione intellettuale meridionale.

 

Concludendo, la drammatica situazione in cui versa oggi il Mezzogiorno ci induce a riflettere sulla necessità di nuove e più puntuali politiche occupazionali e del lavoro, indispensabili per ridare speranze tanto ai giovani che vanno via, quanto a tutti gli atri che comunque restano. Interventi che potrebbero ben costituire un’opportunità per coltivare e far maturare quel capitale sociale – poco presente, ma tanto necessario per il Mezzogiorno – che costituisce la principale infrastrutturazione immateriale che sta alla base del progresso e dello sviluppo di un territorio.

 

Valerio Gugliotta

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@valerio_gugliot

 

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