Non chiamatelo il Jobs Act francese

I parallelismi con il Jobs Act non sono mancati. Identico era del resto l’obiettivo dichiarato: rendere più efficiente il mercato del lavoro coniugando in termini moderni flessibilità per le imprese e tutele per i lavoratori.

 

Così come non è mancato, nel momento più critico e decisivo per l’approvazione della riforma francese del lavoro, un richiamo a quel dovere di decidere che, non senza un eccesso di enfasi, ha sin qui scandito l’azione del Governo Renzi. «Governare significa anche saper chiudere il confronto quando è il momento», ha solennemente dichiarato Manuel Valls per spiegare il ricorso a una procedura del tutto eccezionale, prevista della Costituzione francese, per aggirare in Parlamento il muro dei no eretto dalle opposizioni per l’occasione alleate con la sinistra e la fronda interna al partito socialista.

 

Le analogie tra Loi Travail e Job Act si fermano qui e appartengono, semmai, all’imperante “storytelling” renziano: la ricerca di una narrazione di successo che possa colmare il profondo divario tra annuncio e modesto impatto della riforma sulla realtà del mercato del lavoro. Sul piano della tecnica legislativa e della politica del diritto, infatti, ci troviamo di fronte a due visioni diametralmente opposte nella regolazione dei rapporti di lavoro. Un provvedimento di ispirazione statualista e centralista, quello italiano, che si assume il merito della marginalizzazione del ruolo della rappresentanza al punto di prospettare ora il colpo di grazia della legge sindacale.

 

Una riforma, quella francese, che per contro si propone di stabilire la centralità della contrattazione collettiva aziendale lasciando alla legge un ruolo residuale nella giusta convinzione che la prossimità e l’adattabilità siano l’unica dimensione praticabile in un contesto di spinta globalizzazione e competizione internazionale che marginalizza il ruolo della normativa di livello nazionale.

 

Ciò che più colpisce non è tuttavia la differente visione quanto, in entrambi i casi, la distanza tra il progetto e l’assetto finale della legislazione.

Perché è qui che si misura la reale forza dei due governi. Nella elaborazione del Jobs Act Matteo Renzi non ha trovato un solo vero ostacolo sulla sua strada. Non la debole e rissosa opposizione interna del partito e non certo un sindacato indebolito dal non aver capito e gestito per tempo la grande trasformazione del lavoro. Non così Manuel Valls che si è trovato di fronte un sindacato ancora capace di parlare al cuore della gente e mobilitare una massiccia opposizione tale da indurre il Governo francese a fare ampiamente marcia indietro approvando una riforma a metà che non piace ora a nessuno.

 

Difficile dire cosa sia peggio anche se, vedendo i modesti effetti del Jobs Act e il folle spreco di risorse su una “stabilizzazione” impossibile dopo il superamento dell’articolo 18, resta il dubbio che Renzi si sia giocato un credito e una credibilità che la fortuna concede raramente due volte a un politico.

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

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* Il presente articolo è pubblicato anche in Panorama, 18 maggio 2016, con il titolo Non chiamatelo «Jobs Act francese».

 

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Non chiamatelo il Jobs Act francese
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