Non avere paura del cambiamento – In ricordo di Marco Biagi 15 anni dopo

Marco Biagi non amava le commemorazioni. Ancor meno la vuota retorica delle parole. Ma non è solo per questa ragione che il tentativo di onorarne la memoria, a quindici anni dalla scomparsa per mano vile delle Brigate Rosse, non può ridursi a una celebrazione di idee e tempi che furono. È l’attualità del confronto politico e sindacale sui difficili temi del lavoro a portare ancora una volta al centro del dibattito pubblico il suo progetto di modernizzazione del mercato del lavoro. “Ritornare alla legge Biagi”. Pare questa la risposta di chi, un tempo, ha duramente osteggiato e anche travisato la sua riforma. Come nel caso di autorevoli esponenti del Partito Democratico che, per disinnescare la mina del quesito referendario della CGIL sui voucher, riconoscono oggi l’equilibrio e anche il pragmatismo delle soluzioni avanzate dal professore bolognese nella regolazione delle prestazioni occasionali di tipo accessorio.

 

Così non è stato quindici anni fa. E non possiamo limitarci a parlare di una occasione mancata per il nostro Paese che ancora oggi registra gravi ritardi nella modernizzazione del mercato del lavoro. Marco Biagi è stato individuato dai suoi assassini anche a causa di una diffusa opera di distorsione delle sue idee e del suo prezioso lavoro di raccordo e dialogo tra istituzioni, imprese e sindacato come chiaramente segnalava il rapporto semestrale dei servizi segreti reso noto il giovedì precedente al suo assassinio da Panorama. Una amara lezione da tenere ben presente in una stagione politica tanto incerta quanto lacerata come la nostra dove imperano la retorica dello storytelling e la post-verità. Poco pare cambiato da allora. Ancora una volta il Paese è spaccato a metà, in una eterna contesa tra guelfi e ghibellini; in questo caso tra i favorevoli e i contrari al Jobs Act, che è poi il vero nodo del referendum della CGIL sui temi del lavoro.

 

Non sta a noi dire da quale parte si sarebbe schierato Marco Biagi. Sappiamo però – e i suoi scritti lo confermano – che si è sempre schierato da una parte sola, dalla parte del lavoro. Per questo Marco Biagi non avrebbe mai appoggiato posizioni di retroguardia, ma neppure sostenuto processi di ottusa deregolazione, incentrati su modelli del Novecento industriale e per questo incapaci di contemperare efficienza e giustizia sociale.

 

E così, mentre divampa la sterile contesa sui numeri del Jobs Act e sui posti di lavoro “stabili” creati dal Governo dopo il superamento dell’articolo 18, già quindici anni fa Marco Biagi ci esortava a guardare oltre. Perché “il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità anche se non altrettanto avviene per la regolazione dei rapporti di lavoro. La stessa terminologia adottata nella legislazione lavoristica (es. «posto di lavoro») appare del tutto obsoleta. Assai più che semplice titolare di un «rapporto di lavoro», il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un ciclo”. Da qui l’impegno per un nuovo diritto del mercato del lavoro e la preferenza verso il metodo delle relazioni industriali inteso come quadro regolatorio sussidiario “che dovrà diventare sempre più concordato e meno indotto dall’attore pubblico”.

In una epoca segnata da crescente complessità e nuovi bisogni che rimangono senza risposte non possiamo che essere riconoscenti verso Marco Biagi perché ci ha insegnato a non avere paura del cambiamento e anzi ad accogliere con ottimismo e fiducia la sfida del futuro senza ideologie e senza timore di veri cambi di paradigma.

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

*Pubblicato anche su Panorama, 16 marzo 2017

 

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