Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Matteo Renzi: oltre il giardino?

La “resistibile ascesa” di Matteo Renzi ricorda la storia raccontata in un vecchio film “Oltre il giardino”. Il protagonista, un ex giardiniere, Chance, interpretato da un impareggiabile Peter Sellers, capita per caso nel giro di una potente lobby di Washington in un momento in cui la classe dirigente americana non sa che pesci pigliare nel mezzo di una grave crisi economica. Chance sforna una sfilza di banalità che vengono scambiate per pensieri di grande saggezza. Così i suoi protettori pensano di candidarlo alla presidenza degli Usa. Il film si ferma a questo punto. Non è dato sapere, dunque, se l’ex giardiniere arrivi alla Casa Bianca.
 
A Matteo Chance Renzi è riuscito invece di varcare, da inquilino pro tempore, il portone di Palazzo Chigi. In verità, il sindaco-segretario-premier non è un mentecatto come Chance. Anche se il suo profilo ricorda “la profondità della superficie” di cui parlava Robert Musil (“L’uomo senza qualità”) Renzi è un ottimo comunicatore, astuto e spregiudicato; ha un po’ di esperienza politica e, soprattutto, è fortunato. L’esibizione con Mike Bongiorno lo ha segnato per la vita intera.
 
Aspettando di vederlo all’opera – insieme alla sua squadra in cui il nuovo si mescola con l’antico – sarebbe sbagliato non accorgersi che dietro al fenomeno Renzi, sostenuto da poteri fortissimi, si raccoglie pure un pensiero politico. Lo si intuisce, prima ancora che dal caotico procedere del leader, da alcune esternazioni dei suoi più stretti collaboratori. Il 13 febbraio, quando in direzione si era consumato lo strappo, il responsabile del welfare di Largo del Nazareno, Davide Faraone, in una lunga intervista televisiva ha fatto capire meglio i motivi di contrasto tra il Pd di Renzi ed il governo Letta. Secondo Faraone l’esecutivo uscente aveva delle caratteristiche troppo “tecniche” come se fosse una prosecuzione della precedente compagine presieduta da Mario Monti; il Pd non era più in grado, soprattutto in vista delle elezioni europee ed amministrative, di condividerne le politiche – ancora troppo orientate al rigore e al risanamento – e di difenderle con la propria base e con l’elettorato. In sostanza, il governo metteva in imbarazzo il partito.
 
Ovviamente, questi ragionamenti vanno a sbattere contro il rapporto dell’Itala con l’Unione europea, riproponendo una volta di più il quesito che ci portiamo appresso da anni e che sarà al centro delle elezioni per il Parlamento europeo, non solo nel nostro Paese. Quella del risanamento è stata una delle tante politiche possibili, per giunta rivelatasi sbagliata alla prova dei fatti, oppure era è rimane priva di valide alternative, anche ai fini di promuovere la crescita? Chi scrive è di quest’ultimo avviso, non solo sulla base di convenzioni personali, ma osservando la realtà sotto i nostri occhi.
 
I Paesi che hanno promosso ed attuato politiche di rigore più severe delle nostre (Spagna, Portogallo, Irlanda, persino la Grecia) stanno tornando a crescere prima e più intensamente di noi. In sostanza, può esservi crescita soltanto se si riesce a spezzare la spirale perversa tra deficit-debito-tassi di interesse-nuovo deficit-nuovo debito-più elevati tassi di interesse. Solo rompendo queste sequenza distruttiva si possono liberare risorse per gli investimenti e lo sviluppo. I parametri di Maastricht non sono una camicia di forza. Ci siamo mai chiesti quali siano le ragioni che indussero a fissare nel 3% il tetto del deficit consentito? Quando venne definito il trattato i negoziatori si preoccuparono di lasciare dei margini per le politiche di sviluppo: venne indicato il 3% di flessibilità dei bilanci tenendo conto di quanto, in media, gli Stati riservavano agli investimenti. Noi abbiamo consumato queste disponibilità nella spesa corrente.
 
Pertanto, le politiche del governi Monti e Letta non meritano le critiche che vengono loro rivolte. Il 9 novembre 2011 lo spread era di 575 punti; il 14 febbraio 2014 era sceso a 201 punti. I tassi di interesse sui Btp decennali erano passati dal 7,49% al 3,69%: si erano praticamente dimezzati. È stato certamente un merito di Enrico Letta (dei Ministri economici Fabrizio Saccomanni e di Enrico Giovannini, in particolare) quello di essersi mossi in continuità con la precedente esperienza dei “tecnici” senza farsi sorprendere dalle tentazioni di smontare le riforme del ministro Elsa Fornero che serpeggiavano nella maggioranza. Intanto, l’aver “mollato” sul risanamento in queste ultime settimane di incertezza ha messo a rischio una somma di 6 miliardi che ci era stata promessa dalla Ue.
 
Se il cambiamento significa prendere le distanze dalla Ue, il risultato – visti gli impegni sottoscritti dall’Italia – non potrà che essere quello di finire sotto la tutela della trojka in breve tempo. Ecco perché è stata importante la scelta del Ministro dell’Economia ed è singolare che tra i nomi fatti vi fossero personalità con posizioni nettamente diverse rispetto alle scelte da compiere a proposito del nodo cruciale della Ue. Pier Carlo Padoan è una soluzione di compromesso: è il più “politico” dei “tecnici”, ma è sicuramente conosciuto e stimato nell’ambito internazionale, più dell’ex sindaco di una piccola città dell’Emilia, meno noto di Peppone, il celebre personaggio della saga di Mondo piccolo che, insieme a Don Camillo, ha reso celebri quelle terre generose. Padoan, purtroppo, sostiene una linea differente rispetto alla stretta osservanza Ue dei suoi predecessori.
 
È il caso di inserire a questo punto un’altra considerazione-chiave dell’attuale fase del dibattito politico. L’altro aspetto che caratterizza il nuovo gruppo dirigente del Pd è una fiducia manichea nella politica che non solo induce a chiudere la stagione dei ministri tecnici, ma sembra persino ritenere che si possa fare a meno di quel minimo di esperienze e di competenze specifiche che non guasterebbero in coloro che sono chiamati alla guida di un ministero. Non basta essere giovani e donne per avere una marcia in più. Oddio, in passato ne abbiamo viste di tutti i colori, anche nella composizione dell’esecutivo presieduto da Mario Monti (per non parlare di quello di Berlusconi). Ma questa discrepanza – tra ruolo politico e qualità dei problemi da gestire – era oggetto di severe critiche da parte dei media.
 
Oggi è Dario Nardella a rivendicare, sul Corriere della Sera, una sorta di primato della politica e dei politici per la loro capacità di interagire meglio con il “sentire” della gente. Come se questa fosse la trasformazione da realizzare. E non più invece quella funzione dirigistica-educativa che la politica aveva delegato ai tecnici, “missi dominici” di Bruxelles. È significativo, per esempio, che questi giovanotti se la prendano con gli apparati ministeriali e con la Ragioneria generale dello Stato come se qui stessero i nemici delle riforme, sempre pronti a incatenare al suolo il libero dispiegarsi dell’iniziativa politica. Sono posizioni molto pericolose perché la verità è che queste istituzioni hanno impedito alla politica di sfasciare ancor di più il bilancio dello Stato. Non a caso tutte le norme di spesa devono avere il “bollino” della Ragioneria, a certificazione dell’esistenza di un’adeguata copertura finanziaria; altrimenti la Commissione Bilancio non fa passare i provvedimenti e il Capo dello Stato non li promulga. Eppure si parla di far saltare la “bollinatura”, come se la politica fosse in grado di moltiplicare i pani e i pesci.
 
Proprio così: dopo anni che la politica è messa alla gogna, si sta tornando all’idea per cui essa, come il cuore, “ha delle ragioni che la ragione non conosce”. Al punto che dei ragazzini di primo pelo si sono permessi persino di criticare chi – come Fabrizio Saccomanni – proveniva dal santuario di via Nazionale fino ad ora sacro alla Patria come il fiume Piave. La cosa comunque incomprensibile è la svolta dei media. Per anni i grandi quotidiani e il talk show hanno trattato i politici come ladroni, grassatori, imbroglioni, prostitute e manutengoli. Li hanno derisi per le loro gaffe, hanno saccheggiato i loro curricula, persino i loro menu e le loro buste paga. Li hanno trattati come pezzenti e mentecatti. Eccoli ora, proni e complici, ad osservare, ad occhi spalancati, il giovanilismo brandito come una clava, l’inesperienza e l’incompetenza presentate come valori e qualità. E fingono di non vedere che i “ Renzi boys and girls” sono figli e mantenuti dalla politica, perché nella vita non hanno mai fatto altro.
 
In tutto ciò, chi scrive ha apprezzato che al Lavoro vada Giuliano Poletti. Non è sicuramente un intellettuale, non ha inventato una tipologia di contratto unico, ma è una persona di buon senso e di esperienza, proveniente da un settore – Renzi ha motivato bene il criterio della scelta – che può fornire (e che già fornisce), un grande contributo ad una nuova idea di welfare e di lavoro: dal privato sociale, al non profit, all’auto-imprenditorialità, ai modelli del socio-lavoratore che Marco Biagi studiò tra i primi (non a caso il professore era uno stimato consulente della Lega Coop). Per l’età, Poletti ha fatto a tempo ad essere iscritto al Pci. Ormai, con i tempi che corrono e con gli homines novi in circolazione, questa è divenuta una garanzia di serietà.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
 
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