L’onerosità nei contratti pubblici: trattasi di un’utilità economica anche immateriale purché idonea a far conseguire leciti vantaggi

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 Con la sentenza n. 4614 del 3 ottobre 2017, il Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato il tema dell’onerosità nei contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione per l’affidamento dei servizi. L’organo giudicante ha ritenuto che possa essere configurabile un contratto di appalto per l’affidamento di servizi a titolo gratuito posto che l’affidabilità e la serietà dell’offerta possono essere ragionevolmente assicurate «da altri vantaggi» che il professionista potrà guadagnare, «economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto». La situazione di fatto sottesa alla decisione riguarda la scelta del Comune di Catanzaro di indire una procedura aperta per l’affidamento della redazione del Piano Strutturale Comunale, con la previsione di riconoscere un rimborso spese di euro 250.000,00, documentato e rendicontato, e un corrispettivo pari ad euro 1,00. La decisione dell’Ente di bandire la gara d’appalto inserendo questi parametri matura in un contesto di particolare scarsità di risorse pubbliche e cioè in «assenza di copertura finanziaria per una spesa stimata di circa euro 800.000» per la realizzazione dell’opera, come riportato nella delibera della giunta comunale del 17 febbraio 2016. Peraltro, prima di indire la gara, l’Ente locale ha interpellato la sezione regionale della Corte dei Conti con la finalità di accertarsi se fosse stato possibile, tenuto conto del quadro normativo nazionale e comunitario, poter indire una gara di appalto con la previsione di corrispondere un compenso palesemente simbolico. Con parare n. 6 del 29 gennaio 2016, la Corte dei Conti ha reputato possibile una tale operazione posto che il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 12 aprile 2016, n. 50) «non riporta alcun divieto espresso circa l’inammissibilità di contratti di prestazione d’opera intellettuale a titolo gratuito».

 

Dopo che il Comune di Catanzaro ha avviato la procedura di selezione del miglior offerente per l’affidamento della redazione del progetto in questione, l’Ordine provinciale degli architetti, unitamente agli ordini professionali degli ingegneri, degli agronomi e dei forestali hanno impugnato il bando di gara ed il disciplinare davanti al Tar calabrese contestandone l’illegittimità e sostenendo l’impossibilità di stipulare contratti di appalto di servizi di natura gratuita. L’asserita illegittimità poggiava sul fatto che «l’appalto si caratterizza come contratto a titolo oneroso, sia nella disciplina del Codice civile, sia in quella dei contratti pubblici». Infatti, la natura onerosa del contratto d’appalto si desume tanto dall’art. 1655 cod. civ., quanto dalla normativa relativa ai pubbici contratti (cfr. d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50, in particolare: art. 3; art. 35; art. 93; art. 95, comma 3; art. 83, commi 4 e 5). Il Tar ha accolto il ricorso sostenendo che «non è configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016», oltre al fatto che la presunta gratuità della prestazione è «inidonea a garantire la qualità dell’offerta e, ancora prima, a consentire una sua effettiva valutazione» (cfr. Tar Calabria, sentenza n. 2435 del 13 dicembre 2016). Il Comune di Catanzaro ha appellato la sentenza ritenendo che non vi è alcuna corrispondenza «tra onerosità dell’incarico professionale e garanzia dei requisiti di qualità dell’offerta». La parte appellante ha osservato che l’ordinamento «non vieta una prestazione d’opera professionale a titolo gratuito a vantaggio di una pubblica amministrazione», neppure «con riguardo al sistema dei contratti pubblici». Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello ribaltando alcuni assunti della sentenza emessa all’esito del primo grado di giudizio: a) l’onerosità (cfr. art. 3 d.lgs. n. 50/2016), pur derivando dalla normativa europea che salvaguardia i principi del libero mercato, della concorrenza e della trasparenza, «può assumere per il contratto pubblico un significato attenutato o in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale e propria del mondo interprivato»; b) l’assenza della quantificazione finanziaria del corrispettivo, in realtà, non fa venire meno  la serietà dell’offerta e l’affidabilità dell’offerente poiché le medesime possono essere ragionevolmente assicurate dal fatto che il professionista può comunque percepire «altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto». In particolare, relativamente al profilo del guadagno finanziario quale presupposto della credibilità dell’offerta, il Consiglio di Stato ha sostenuto che il professionista possa avere interesse a contrarre con la Pubblica Amministrazione, anche a titolo gratuito, con lo scopo di ricevere come controprestazione un «altro genere di utilità», dunque, alternativa al compenso ma «pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata» dal contratto. Infatti, per alcuni soggetti che si obbligano con la Pubblica Amministrazione ad eseguire opere o prestare servizi, alla base dello scambio contrattuale non vi è sempre un utile economico in senso stretto. Si tratta del c.d. terzo settore composto da soggetti giuridici per loro natura privi di finalità lucrativa, cioè soggetti – precisa la sentenza – che perseguono «scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estendibile il principio del c.d. “utile necessario”» (sul punto la sentenza richiama alcune pronunce che confermano questa tesi; cfr. ex multis Cons. St., V, 13 settembre, n. 3855; Cons. St., III, 27 luglio 2015, n. 3685; Cons. St., III, 17 novembre 2015, n. 5249). Da questo orientamento giurisprudenziale, il Consiglio di Stato ne fa discendere due principi centrali per la risoluzione della controversia: a) l’utile finanziario non è considerato dal diritto vivente l’elemento indispensabile per attribuire serietà ed affidabilità all’offerta; b) di conseguenza, le finalità a cui mira un soggetto privato che viene ammesso ad essere parte di un contratto pubblico possono prescindere dal perseguimento di una utilità economica in senso stretto. A questo punto, la sentenza si fa carico di definire in modo concreto quali siano le altre finalità alle quali possa legittimamente mirare il professionista. L’utilità economica non è solo un guadagno strettamente finanziario ma si compone anche di «elementi immateriali» quali ad esempio il vantaggio o meglio il prestigio «del divenire ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della prestazione richiesta dall’Amministrazione».

 

Il Consiglio di Stato rafforza le proprie motivazioni facendo leva su altri dati normativi e giurisprudenziali. Il d.lgs. n. 50/2016 disciplina all’art. 19 i contratti di sponsorizzazione, che non possono essere qualificati come contratti a titolo gratuito «in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica». Questo scambio non può essere considerato gratuito poiché in cambio di denaro viene garantita un’utilità immateriale, cioè il ritorno d’immagine. A supporto dell’onerosità intesa come utilità economica anche immateriale, vi è la giurisprudenza europea (cfr. Corte Giust. U.E., 12 luglio 2011, in causa C-399/98) che in materia di urbanizzazione ed edilizia, ha osservato che per attribuire ad un contratto pubblico il carattere dell’onerosità non occorre un esborso pecuniario, perché ad analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione secondaria.

 

È utile ricordare che questa pronuncia – che segna comunque una svolta della giurisprudenza nell’ambito dei contratti d’appalto sottoscritti con la Pubblica Amministrazione – interviene in un momento storico, forse decisivo per la riqualificazione e la tutela delle professioni. Da diversi mesi, infatti, è in atto l’iter parlamentare per l’approvazione della legge sull’equo compenso. Inizialmente pensato esclusivamente per le sole professioni legali, regolante anche la nullità dell’accordo concluso tra avvocato e committente “forte” (ovvero banche, assicurazioni o imprese di grandi dimensioni) qualora il compenso pattuito non fosse stato proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto ed alle caratteristiche della prestazione legale, il disegno di legge è diventato oggetto d’interesse di tutte le categorie appartenenti al mondo della libera professione (consulenti del lavoro, commercialisti etc.). Infatti, è noto che il testo di legge sull’equo compenso per la categoria degli avvocati è stato collegato nel dibattito parlamentare al disegno di legge dedicato ad una remunerazione proporzionata di tutte le prestazioni professionali, comprese anche quelle non ordinistiche (cfr. L. 14 gennaio 2013, n. 4).

 

Giovanni Piglialarmi

Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo – ADAPT

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