L'Italia in piazza e i 22 giorni di fermo

Il blocco dell’Autosole ha nella storia politico-sindacale italiana un suo forte valore simbolico, è il segno di un Rubicone varcato, di una rabbia che non trova argini. Ieri le tute blu della Ast di Terni l’hanno fatto e di conseguenza hanno spaccato l’Italia per più d’un paio d’ore. Stiamo parlando di operai che sono arrivati ormai al 22° giorno di sciopero ad oltranza con circa 70 tonnellate di mancata produzione. Numeri che, tanto per capirci, ricordano gli anni 80 e i 35 giorni ai cancelli di Mirafiori. La decisione di invadere le corsie è stata presa in alternativa all’occupazione dalla fabbrica e i sindacalisti si sono accodati di fronte alla determinazione dei delegati di fabbrica. Da più di tre settimane nello stabilimento di Terni sono ferme le forniture di acciai per Electrolux, Indesit e Fiat e questo blocco costa circa 100 mila euro al giorno, solo di penale per il mancato rispetto del contratto di fornitura.
 
Il sospetto avanzato dai sindacati è che i vertici aziendali della Thyssen giochino a dimostrare che l’impianto umbro non ha futuro e di conseguenza non si straccerebbero le vesti se dovessero perdere i clienti top dell’auto e degli elettrodomestici. Quale che sia la verità gli operai hanno sgomberato l’autostrada solo quando è arrivata la notizia di una convocazione, per questa mattina, nell’ufficio del ministro Federica Guidi. I sindacati ci andranno con un retropensiero: l’idea che si possa coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti anche nel salvataggio di Terni. Intanto l’ipotesi (molto più sensata) di trovare una sponda a Bruxelles e di far saltare il veto anacronistico dell’antitrust europeo, che ha bloccato la vendita dell’Ast ai finlandesi di Outokumpu, purtroppo non decolla. La neocommissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, ha detto chiaro e tondo che nelle sue stanze non c’è la soluzione per l’Umbria.
 
L’immagine dell’Italia bloccata però, e purtroppo, non inizia e finisce a Orte. Domani in contemporanea sono previsti lo sciopero delle fabbriche del Nord proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini con manifestazione a Milano e un’astensione dal lavoro proclamata dai Cobas del trasporto ferroviario. E proprio ieri è stato indetto con squilli di tromba dalla Cgil di Susanna Camusso uno sciopero di otto ore per venerdì 5 dicembre. Il caso poi ha voluto che ancora ieri arrivasse dalle associazioni degli autotrasportatori l’annuncio della proclamazione dello stato di agitazione contro le proposte per il settore avanzate dal ministro Maurizio Lupi.
 
E’ chiaro che si tratta di rivendicazioni e azioni di lotta che non si prestano ad essere sommate aritmeticamente. C’è di tutto un po’, timori di chiusura di un impianto efficiente, scioperi a forte valenza politica, il “blocco ergo sum” di piccole sigle sindacali, prove di forza tra categorie e ministero competente, ma il quadro che ne viene fuori non è certo rassicurante.
 
E’ vero che da qui alla fine dell’anno il Pil non ci lascia presagire niente di buono e scaramanticamente stiamo aspettando il giro di boa del 31 dicembre, l’insieme di queste agitazioni finisce per comunicare però un senso di impotenza e di rabbia sorda. Gli italiani che leggeranno i giornali e ascolteranno i tg ne ricaveranno una sensazione non certo gradevole, saranno portati a pensare che oltre a tutti i guai dell’economia per tre settimane sarà difficile persino muoversi.
 
P.S. Alla Berto’s di Padova 48 ore fa è stato firmato un accordo integrativo che prevede nel triennio un premio variabile di 5.900 euro. Ieri alla Barilla un’analoga intesa frutterà ai 4 mila dipendenti un premio di produzione che in tre anni equivarrà a 2.600 euro. In Italia succede anche questo.
 
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L'Italia in piazza e i 22 giorni di fermo
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