L’intervento di Peter Cappelli a #GTL2016: un ragionamento sistematico su competenze, occupabilità e problemi della società americana

Considerazioni a margine del convegno internazionale ADAPT – UNIBG “Il futuro del lavoro: una questione di sostenibilità”,
Bergamo 10-11 novembre 2016

 

Nell’ambito del Convegno internazionale sul “Futuro del lavoro: una questione di sostenibilità, organizzato dalla Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro dell’Università di Bergamo insieme ad Adapt e svoltosi nel meraviglioso complesso di Sant’Agostino l’11 e 12 novembre 2016 (qui il racconto via Tweet), uno degli interventi più attesi e sorprendenti, per ampiezza ed originalità dei contenuti, è stato quello di Peter Cappelli, professore di Management e direttore del Centro di Risorse Umane della Wharton University of Pennsylvania.

 

Il prof. Cappelli, il quale in passato ha ricoperto rilevanti incarichi governativi in materia di mercato del lavoro tanto negli Stati Uniti quanto all’estero, presentava una relazione sull’impatto dei cambiamenti in atto nel mondo del lavoro sulle competenze e sulla c.d. employability.

Il suo ragionamento, però, è stato di ampio respiro in quanto ha preso le mosse dall’analisi degli ultimi avvenimenti politici che hanno sconvolto la scena internazionale per trarne elementi utili al fine di comprendere meglio gli attuali problemi, anche occupazionali, che contraddistinguono più o meno tutte le democrazie occidentali.

Ed infatti, la lezione – anche di metodo analitico – che si può trarre dalla relazione di Cappelli è che i vari eventi e fenomeni della società non devono essere esaminati isolandoli dal contesto nel quale si inseriscono, ma devono essere letti congiuntamente ad altri fattori, che si pongono rispetto ai primi in termini di causa, concausa o effetto, al fine di pervenire ad un quadro ricostruttivo unitario.

 

Nello specifico, l’illustre professore, oltre a esprimere forte preoccupazione per il futuro incerto degli USA e, più in generale, dell’intero pianeta (dal momento che, ad oggi, nessuno conosce le reali intenzioni del neo-Presidente Donald Trump), ha posto l’accento su alcuni aspetti emersi dalle recenti elezioni americane e forse non presi in debita considerazione dai più.

 

Il primo di questi elementi è riconducibile al concetto di imprevedibilità (unpredictability).

Imprevedibili sono stati gli esiti tanto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America quanto della consultazione popolare svoltasi nel Regno Unito in ordine alla permanenza, o no, all’interno dell’Unione Europea (c.d. Brexit): tutti i sondaggi e le previsioni degli esperti, infatti, avevano pronosticato, in entrambi i casi, risultati del tutto diversi.

Come spesso imprevedibili sono le dinamiche e le sorti del mercato del lavoro.

 

Di contro, Cappelli ha evidenziato come proprio il concetto opposto, ossia quello di prevedibilità, sia uno di quei criteri-chiave che orientano tanto i manager nel modo di fare business quanto le istituzioni nella programmazione delle varie politiche economiche ed occupazionali di lungo termine, ciò all’evidente fine di cercare, già nel presente, una risposta agli eventi futuri.

Sicché, ha insinuato ironicamente il dubbio il prof. Cappelli, tutte le certezze che abbiamo in materia forse dovrebbero essere messe in dubbio.

 

L’illustre professore ha poi richiamato l’attenzione su altri elementi che si sono palesati, in tutta la loro evidenza, durante la campagna elettorale: l’ascesa di candidati considerati populisti o, comunque, lontani dal c.d. establishment (Bernie Sanders, per il Partito Democratico, e Donald Trump, per quello Repubblicano), i quali hanno saputo incarnare e rappresentare l’enorme frustrazione degli americani nei confronti dello status quo, dell’economia e del mondo degli affari.

 

Cappelli ha, infatti, suggerito di leggere le ultime elezioni presidenziali alla luce di due statistiche: l’una relativa ai trend negativi dei livelli retributivi degli uomini bianchi (white men) con diploma di scuola superiore (high school), i quali sono precipitati di 1/3 tra il 1978 e il 1984 e da allora non si sono più ripresi; l’altra concernente la brusca riduzione delle aspettative di vita (life expectancy) di questo strato di popolazione: negli U.S.A. muoiono sempre più giovani e muoiono per qualcosa di auto-inflitto (suicidi, abuso di droghe, alcool). Dato, quest’ultimo, alquanto allarmante ed inverosimile per un Paese che appartiene a quella parte del “Mondo sviluppato”.

 

Un fattore intimamente connesso a queste statistiche è, secondo Cappelli, la diminuzione del tasso di partecipazione alla forza lavoro dei c.d. prime age men (uomini tra i 24 e i 54 anni), i quali smettono di cercare lavoro perché non lo trovano.

E sono proprio queste categorie di cittadini americani – ad avviso dell’esperto del mercato del lavoro americano – ad aver formato la base elettorale del neo-Presidente Trump: uomini bianchi, giunti fino alla scuola superiore, senza istruzione universitaria le cui condizioni di vita sono gravemente peggiorate nel tempo.

 

Ciò posto, occorrerà capire se, ed eventualmente come, Trump si occuperà di questi problemi legati anche alla sostenibilità del lavoro.

Al riguardo, Cappelli ha sottolineato che il partito Repubblicano tradizionalmente non ha grande interesse verso tali questioni ed è anche su questo piano che si è consumato un forte contrasto tra il partito ed il neo-eletto Presidente degli Stati Uniti.

 

Ed è proprio qui che il prof. Cappelli ha richiamato l’altro concetto che ha caratterizzato l’ultima corsa alla Casa Bianca: il ruolo ed il peso che le idee, o meglio, le ideologie hanno avuto e continuano ad avere nel mondo americano e, in particolare, nel Partito Repubblicano.

Ed infatti, a dire dell’autorevole professore, l’idea sottesa alle politiche occupazionali del partito Repubblicano si può sintetizzare con questo slogan: se ci si libera dalle regolamentazioni e si rafforzano le imprese il problema occupazionale si risolve da solo.

 

Al riguardo, il professore americano ha precisato che la prospettiva degli Stati Uniti sui temi occupazionali e sociali è alquanto diversa da quella dei paesi europei: le imprese americane avrebbero, infatti, “esternalizzato” molti dei loro problemi su altri soggetti.

Questo – sempre ad avviso di Cappelli – lo si potrebbe facilmente notare a livello locale: negli Stati Uniti i datori di lavoro si muovono da uno Stato all’altro assicurandosi ogni volta un accordo migliore con le amministrazioni locali (tasse più basse, forza lavoro già preparata, retribuzioni più favorevoli, ecc.).

 

In un certo senso, questo è quanto sarebbe accaduto anche con riferimento al tema delle competenze (skills).

Anche qui, secondo la ricostruzione di Cappelli, l’ideologia ha avuto un grandissimo peso nelle politiche occupazionali americane degli ultimi decenni.

In particolare, l’esperto del mercato del lavoro statunitense ha richiamato la teoria del shareholder value, secondo cui il successo di un’impresa è massimo laddove riesca ad arricchire i c.d. shareholder. Teoria, questa, che rapportata al mercato del lavoro ha fatto sì che le imprese americane e vari operatori del mercato, tra cui enti (sulla carta) indipendenti, abbiano posto in essere operazioni di tipo economico, commerciale, societario o “politico” volte esclusivamente all’abbassamento dei salari dei lavoratori.

 

Fatta questa premessa di carattere generale, il prof. Cappelli ha poi mostrato alcune slide relative allo stato in cui versa attualmente il mercato del lavoro statunitense.

 

In particolare, Cappelli è partito da una delle questioni più dibattute tra gli esperti, e cioè quella relativa al mantra, ampiamente diffuso nel mondo delle imprese e degli intermediari del mercato del lavoro, secondo cui sarebbe estremamente difficile assumere i candidati che realmente si cerca a causa della inadeguatezza della forza lavoro e del fatto che i lavori attuali richiederebbero nuove competenze che il sistema scolastico non è grado di dare.

Pur essendo questo un sentire comune, per Cappelli non vi sono evidenze empiriche (ossia dati o statistiche ufficiali) sul punto.

Tuttavia, l’autorevole esperto evidenzia come nel mercato del lavoro americano poche assunzioni (il 5%) arrivano direttamente dai college (l’equivalente delle nostre Università).

 

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Un altro dato importante – secondo il professore della Wharton University of  Pennsylvania – è che mentre una generazione fa il 10% dei posti di lavoro era destinato a candidati esterni all’impresa ed il 90% a quelli già dentro l’impresa, oggi questo dato si è capovolto essendo le assunzioni di candidati esterni pari ai 2/3 delle nuove assunzioni.

 

D’altro canto, sempre per Cappelli, non c’è alcun dato che dimostri che gli attuali lavori richiedano più competenze, o quantomeno più competenze tecniche: dove ci sono prove dell’aumento di skills, esse non riguardano le abilità/competenze tecniche bensì quelle comportamentali.

 

Al riguardo, Cappelli ha fatto presente che anche negli Stati Uniti è molto alta la percentuale di laureati che occupano posti di lavoro rispetto ai quali risultano essere sovra-qualificati o che nulla hanno a che fare con la loro istruzione.

 

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Peraltro, anche per l’eterogenea categoria dei c.d. jobs STEM (i lavori nelle Scienze, Tecnologie, Ingegneria e Matematica) le cose non sembrerebbero andare molto meglio, dal momento che non c’è molta domanda nei settori delle Scienze e della Matematica e, anche in quei settori che vanno per la maggiore, non tutti i laureati trovano lavoro.

Il problema nel campo dell’ingegneria, ad esempio, è la difficoltà di prevedere quale lavoro sarà richiesto tra 5 o 6 anni. E così, le previsioni di coloro che escono dall’high school e devono scegliere la facoltà all’Università sono quasi sempre sbagliate (qui Cappelli riporta l’esempio di quanto è successo con gli ingegneri petroliferi, figura professionale in passato molto richiesta ma oggi in via di estinzione).

 

In conclusione, ad avviso del prof. Cappelli, il vero problema del mercato del lavoro statunitense è che, da un lato, i datori di lavoro cercano candidati in possesso delle c.d. hit the ground running” skills, ossia una forza lavoro che possa essere impiegata immediatamente e con successo anche in nuove attività, con una formazione acquisita sul lavoro (c.d. work-based, on-the-job skills); dall’altro lato, lo stesso training, ossia la formazione on the job (sia essa un tirocinio o un vero e proprio rapporto di lavoro, come, ad es., l’apprendistato), è in inesorabile declino negli Stati Uniti a causa del comportamento stesso delle imprese che ritengono che sia compito del sistema scolastico preparare la forza lavoro (sul ruolo che l’apprendistato ricopre tanto nel fronteggiare l’emergenza occupazionale quanto nel far comunicare sistema scolastico/universitario e mondo produttivo cfr. M. Tiraboschi, Apprendistato:  una leva del placement più che un semplice contratto, in Bollettino Adapt del 15 luglio 2015).

 

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In altre parole, secondo la ricostruzione dell’illustre osservatore del mercato del lavoro statunitense, i datori di lavoro non riescono a trovare quello che vogliono in quanto cercano qualcuno che abbia 5 o 10 anni di esperienza e che abbia già lavorato con strumenti e tecnologie specifiche.

Allo stesso tempo, la tendenza delle imprese americane è quella di non voler/poter formare nessuno perché, così facendo, potrebbero perdere prezioso capitale umano, magari a vantaggio della concorrenza.

Tutto ciò comporta che gli studenti che escono dal sistema scolastico non trovano lavoro in quanto per le persone senza esperienza lavorativa è estremamente difficile risultare occupabili.

 

Per queste ragioni, i problemi attuali del mercato del lavoro statunitense – come tutti i circoli viziosi – sono molto difficili da risolvere.

L’unica soluzione possibile per il prof. Cappelli dovrebbe provenire dai datori di lavoro stessi, i quali dovrebbero cambiare le loro “politiche” attuali.

 

Per il professore della Wharton University of Pennsylvania, tutta questa è “una storia un po’ deprimente, ma è la realtà” del mercato del lavoro statunitense.

E, forse, in un simile contesto, il populismo non aiuta.

 

Federico D’Addio

ADAPT Research Fellow

@federicodaddio

 

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