L’impatto e le conseguenze del decreto dignità secondo i Consulenti del lavoro

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Bollettino ADAPT 22 marzo 2021, n. 11

 

Qual è stato l’effetto del Decreto Dignità sulla stabilizzazione del lavoro? Questo è il quesito a cui ha cercato di rispondere la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro con l’approfondimento pubblicato in data 09 marzo 2021, la cui analisi ha riguardato appunto il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (il c.d. Decreto Dignità).

 

Pare opportuno evidenziare che tale provvedimento normativo, ha avuto un forte impatto sulla disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato, così come regolata dal D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (c.d. Jobs Act), apportando alla medesima importanti novità normative finalizzate ad irrigidire l’utilizzo del contratto a termine.

 

La volontà perseguita dal legislatore è stata, infatti, quella di contrastare fenomeni di precarizzazione ed incrementare il numero delle assunzioni a tempo indeterminato, tramite l’introduzione di norme volte a limitare il ricorso alle tipologie contrattuali flessibili (tra le quali figurano certamente il contratto a termine e il contratto in somministrazione a tempo determinato).

 

L’approfondimento della Fondazione Studi, dopo aver esaminato il quadro normativo di riferimento (pag. 2), analizza i dati relativi all’occupazione nazionale attraverso quanto rilevato dall’INPS e dall’ISTAT.

 

In particolare, viene evidenziato come – secondo quanto raccolto dall’INPS – nei primi dodici mesi di vigenza del Decreto Dignità la crescita delle posizioni lavorative sia stata positiva, +338 mila unità, a fronte comunque di un saldo di +420 mila unità registrato nei 12 mesi precedenti alla sua pubblicazione.

 

Oltre a ciò, è emerso che un elevato numero di datori di lavoro abbia anticipato la stabilizzazione del rapporto a termine, non più prorogabile in virtù delle disposizioni previste dal Decreto Dignità; nello specifico, dall’analisi delle variazioni nette per tipologia di contratti dei dati INPS, nel periodo di riferimento luglio 2018 – giugno 2019, è emerso che:

a) l’aumento dei contratti a tempo indeterminato (+353 mila) è dipeso anche dall’effetto delle 655 mila trasformazioni di contratti a termine, in quanto l’incidenza media di tali trasformazioni sui contratti a tempo indeterminato è passata dal 25% al 35% (nel periodo che va da luglio 2018 a giugno 2019) per poi scendere al 30% nel semestre successivo;

cb) come conseguenza di tali trasformazioni, sono diminuiti sia i contratti a tempo determinato (-184 mila unità) che i contratti in somministrazione (-10 mila unità).

 

Allo stesso modo è stato rilevato che i datori di lavori, per ovviare ai limiti introdotti, si siano serviti di tipologie contrattuali differenti da quelle “colpite” dal Decreto Dignità, quali l’apprendistato, i contratti stagionali ed i contratti intermittenti, che hanno visto incrementare il loro utilizzo rispettivamente di +77 mila unità, +50 mila unità e + 50 mila unità.

 

Successivamente, il documento passa ad esaminare (pag.6) quanto rilevato dall’ISTAT in termini di livelli occupazionali, sottolineando come, sebbene tali dati non consentano una dettagliata differenziazione delle fattispecie contrattuali utilizzate, permettono in ogni caso di effettuare rilevanti osservazioni sugli impatti che il Decreto Dignità ha avuto sull’occupazione.

 

L’approfondimento esaminato, per evitare che i dati raccolti dall’ISTAT possano essere distorti dalla presenza di incentivi alla occupazione stabile vigenti durante la validità del provvedimento sin qui esaminato, procede alla valutazione dei risultati conseguiti nel primo anno di vigenza del Decreto Dignità, confrontandoli con i dati emersi nel periodo antecedente alla sua pubblicazione, dove appunto la quota dei contratti agevolati risulta essere la medesima.

 

Alla luce di quanto sopra esposto, è emerso che nel primo anno di vigenza del Decreto Dignità, sebbene si sia registrato un livello occupazionale positivo, con +114 mila occupati (+0,5%), tale dato risulta essere più che dimezzato se paragonato con l’analogo lasso di tempo antecedente (luglio 2017 – giugno 2018), dove si è riscontrato un incremento di 279 mila unità (+1,2%).

 

Considerando i dati rilevati da INPS ed ISTAT, appare evidente che, per quanto nobile fosse la finalità perseguita dal legislatore, l’effetto realizzatosi come conseguenza della novella legislativa non sia quello sperato. Ed infatti, da quanto sopra esaminato, è evidente che, seppur nell’ambito di un generale incremento occupazionale, le novità introdotte dal Decreto Dignità non hanno comportato un aumento dei rapporti a tempo indeterminato tale da poter ritenere che vi sia stata una transazione, per i lavoratori interessati, dalla condizione di lavoratore a termine a quella di lavoratore a tempo indeterminato.

 

È altresì opportuno sottolineare che il Decreto Dignità si è collocato in un contesto economico connotato da una marcata discontinuità occupazionale: alla luce delle analisi statistiche effettuate – durante il 2018 – dall’ISTAT nei vari mesi, considerati singolarmente, si evince infatti un andamento tutt’altro che continuo della dinamica dei rapporti a tempo determinato, strettamente connessa, quest’ultima, alle nuove disposizioni introdotte dal provvedimento legislativo in esame. Dunque, prima di attuare un simile intervento normativo, sarebbe stato più congruo attendere che il Jobs Act e le riforme in esso contenute avessero dispiegato appieno, ed in modo esaustivo, i loro effetti.

 

Proseguendo con l’analisi, gli esperti della Fondazione si chiedono poi (pag.9) se i risultati conseguiti con il Decreto Dignità possano effettivamente rispondere alle esigenze di un mercato del lavoro che risulta in continua e rapida evoluzione, soprattutto alla luce della pandemia che lo scorso anno ha colpito – e tutt’ora sta affliggendo – il nostro Paese. In tale contesto, si evidenzia come il legislatore sia recentemente intervenuto per rimodellare le stringenti norme che regolano il rapporto a termine, modificando e derogando le disposizioni introdotte con il Decreto Dignità. In particolare, proprio allo scopo di permettere ai datori di lavoro di gestire con flessibilità i rapporti a termine, dapprima è stata predisposta una normativa emergenziale (art. 93 decreto-legge del n. 34 del 2020) per ridurre alcuni – dei molteplici – vincoli previsti dal provvedimento normativo qui esaminato; successivamente, con la Legge di Bilancio (art. 47), sono stati prorogati (al 31 marzo 2021) i termini stabiliti dalla precedente disposizione nel 31 dicembre 2020 entro cui è consentito rinnovare o prorogare – per un periodo massimo di 12 mesi, e per una sola volta – i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, proprio in deroga all’art. 19 d.lgs. n. 81 del 2015. Tale norma prevede infatti la necessaria sussistenza di esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, o di esigenze di sostituzione di altri lavoratori, o di esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

 

Alla luce di quanto sin qui esaminato, appare evidente che la normativa emergenziale – peraltro prorogata dal legislatore – presuppone l’incompatibilità delle stringenti limitazioni previste dal Decreto Dignità con la realtà venutasi a creare oggi, in cui appare indispensabile garantire un adeguato livello di flessibilità del lavoro per consentire una – seppur difficile – ripresa del mercato.

 

L’autore afferma, dunque, che, sebbene il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenti la forma comune del lavoro subordinato, non si può sottovalutare l’importanza del contratto a termine quale istituto flessibile che meglio possa armonizzare le esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, specialmente in un contesto in cui le dinamiche di mercato sono incerte ed in continua evoluzione.

In base a tale assunto, la Fondazione conclude affermando che non è possibile stabilizzare il mercato del lavoro perseguendo esclusivamente la rigidità in entrata, ma è invece necessario creare “le condizioni che rispondano a nuovi modelli organizzativi, contraddistinti da una concezione del lavoro più flessibile e da una maggiore innovazione delle dinamiche produttive nelle imprese”.

 

Alla luce di quanto sin qui esaminato, appare chiaro che il fine di ridurre tout court il numero dei contratti a termine non è, necessariamente, un buon fine. La questione su cui concentrarsi sarebbe non tanto “coma attuare una riduzione dei rapporti temporanei”, quanto piuttosto come “perfezionare la loro regolazione” e come “assicurare loro il più alto grado di certezza normativa”, attraverso la predisposizione di una disciplina volta ad impedire un uso smodato ed illegittimo di tali figure contrattuali, tutelando i lavoratori ed i loro diritti.

 

Riccardo Quacherini

ADAPT Junior Fellow

 

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