L’impatto della automazione industriale sul livello dell’occupazione e dei salari

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Recentemente la ricerca “Robots and jobs: evidence from Us labor markets” condotta dagli economisti Daron Acemoglu e Pascual Restrepo del MIT e pubblicata sul U.S. National Bureau of Economic Research si è occupata di indagare l’effetto dell’incremento dell’utilizzo dei robot e delle macchine nell’industria.

 

Tale ricerca, analizzando il mercato del lavoro degli Stati Uniti dal 1990 al 2007, ha rilevato che l’introduzione di ogni singola macchina all’interno del processo produttivo riduce contemporaneamente il livello di occupazione e del salario per ogni singolo lavoratore.

Sebbene la questione degli effetti della automazione nel mercato del lavoro, come premesso anche dalla ricerca stessa, sia stata oggetto di analisi sin da John Mayanrd Keynes nel 1930 e molti altri autori abbiano approfondito quali tipologie di lavori o di lavoratori siano maggiormente a rischio di automazione, manca tuttavia letteratura scientifica sul calcolo dell’impatto dell’automazione sul livello dell’occupazione e sul livello dei salari.

Tale ricerca si occupa dunque esattamente di indagare l’effetto sul numero di occupati e il livello dei salari dell’utilizzo di robot industriali, intendendosi per tali quella tipologia di macchine totalmente autonome che non necessitano del controllo dell’uomo e che sono riprogrammabili per impieghi differenti.

 

Pertanto la ricerca prende in considerazione solamente quelle macchine che non devono essere governate o pilotate dall’uomo durante il processo produttivo.

Il metodo di calcolo utilizzato nella ricerca si basa invece sul confronto tra le unità di tali macchine presenti nell’industria rispetto alla massa dei lavoratori impiegati.

Stando alle conclusioni raggiunte da Acemoglu e Restrepo, l’introduzione di una singola macchina ogni mille lavoratori riduce l’occupazione dello 0.18-0.34 % e contemporaneamente lo stipendio dello 0.25 – 0.5 %.

La ricerca dimostra dunque la stretta correlazione esistente tra l’utilizzo di robot e i livelli di occupazione e di salario della popolazione attiva.

 

In primo luogo difatti gli autori dimostrano che i tentativi di misurazione dell’incidenza delle macchine sul mercato del lavoro fondati sul calcolo della variazione del capitale IT non conducono agli stessi risultati che si ottengono utilizzando come parametro la variazione del numero di macchine industriali impiegate nei processi produttivi. Ciò induce ragionevolmente a trarre la conclusione non scontata che non tutte le invenzioni tecnologiche sono in grado di determinare un qualche effetto sul livello dell’occupazione e dei salari.

 

In secondo luogo gli autori rilevano che i risultati raggiunti non paiono viziati neanche dall’incidenza della automazione impiegata nel solo settore automobilistico – che è attualmente il settore industriale con il maggior utilizzo di tali tecnologie – ma che l’effetto di tale fenomeno è maggiormente accentuato nell’industria dei lavori manuali, dei lavori dei cd “blue collar”, e nei lavori di assemblaggio, oltre a colpire i soggetti con bassi livelli di istruzione.

 

Il modello di Acemoglu e Restrepo ha dunque sommarizzato la relazione teoretica esistente tra la variazione del livello di occupazione, la variazione degli stipendi e la variazione dei robot impiegati nell’industria, confermando sostanzialmente che l’automazione dei processi produttivi e lo sviluppo della tecnologia applicata nella produzione negli assetti industriali attualmente esistenti, ha, fino ad ora, ridotto le opportunità di lavoro e di ricchezza per l’uomo.

 

Premettendo tuttavia che tale ricerca non considera gli effetti positivi generati nel mercato del lavoro dall’impiego di altre tipologie di tecnologie (come la stampa 3d) o di altri assetti industriali (come quelli fondati sulla sharing economy), la conclusione che è possibile rilevare anche alla luce di altre ricerche (“The Risk of Automation for Jobs in Oecd Countries: A Comparative Analysis”, M. Arntz, T. Gregory, U. Zierahn) è che le macchine non paiono essere in competizione con i lavoratori con alti livelli di istruzione, mentre sottraggono direttamente posti di lavoro ed erodono la retribuzione dei lavoratori con i livelli più bassi di istruzione e qualificazione.

 

Tale ricerca tuttavia, analizzando specificamente tali particolari macchine, sembra essere un utile strumento di analisi soprattutto per gli operatori di determinati settori industriali, come quello dell’assemblaggio e della burocrazia.

Basti solamente pensare che l’International Federation of Robotics stima che siano attualmente impiegati circa 1,5 milioni di robot industriali nell’attuale mercato del lavoro, e che tale numero potrebbe aumentare fino a 4 – 6 milioni di unità entro il 2025.

 

Appare dunque evidente che il compito del legislatore e degli operatori dell’attuale mercato del lavoro sia quello di comprendere tali inevitabili cambiamenti e adeguare, per quanto riguarda i lavoratori le proprie skills, e per quanto riguarda le aziende le proprie tecnologie, agli assetti del nuovo mercato al fine di dare luogo ad una migliore allocazione delle risorse produttive.

 

Gabriele Scappaticci

ADAPT Junior Fellow

@gabscappaticci

 

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