Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica dopo un trapianto: “inaccettabile” o legittimo?

Nei giorni scorsi è apparsa sui media la notizia di un operario di Torino licenziato dopo un trapianto di fegato. Il caso ha acquisito così tanto rilievo a livello mediatico che anche la classe politica, tra cui, il ministro Poletti e il presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, si sono pronunciati a riguardo mostrandosi contrari alla decisione presa dall’azienda. Senza entrare nel merito di tutte le considerazioni che sono state fatte, quello che interessa in questa sede è analizzare il caso da un punto di vista giuridico per capire se, anche in relazione ad altre fattispecie concrete, un licenziamento siffatto possa essere considerato legittimo o meno. Sebbene, raramente raggiungano le cronache nazionali e l’opinione pubblica sono infatti decisamente numerosi i casi come quello in esame. Secondo alcune stime CENSIS, per esempio, sarebbero ben 274mila i lavoratori licenziati dopo aver ricevuto la diagnosi di tumore (CENSIS, FAVO, Quarto Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, 2012).

 

Il lavoratore dell’azienda torinese, trapiantato in seguito ad un tumore al fegato, è rientrato al lavoro dopo 8 mesi in assenza per malattia. Tuttavia, una volta tornato dopo 3 settimane di ferie forzate è stato licenziato. Il lavoratore è stato sottoposto ad accertamenti sanitari per la verifica dell’idoneità alle mansioni di “operaio universale” e l’azienda sostiene che ha dovuto prendere atto delle stringenti limitazioni rilevate dal giudizio del medico competente. Così, afferma di aver verificato la possibilità di adibire il lavoratore a una diversa collocazione in altri reparti, postazioni o stabilimenti, e in mansioni equivalenti, o di livello contrattuale inferiore, senza aver ottenuto un risultato positivo. L’azienda giustifica l’impossibilità di individuare ipotesi di impiego alternativo poiché le postazioni lavorative risultano incompatibili con la residua capacità lavorativa accertata dal medico competente o non corrispondenti con le competenze maturate dal lavoratore. Peraltro, tutte le posizioni lavorative in azienda risultano occupate. Di fronte a questa situazione e sebbene le conseguenze derivanti della malattia di un lavoratore possano tradursi in diverse ipotesi di licenziamento, come il licenziamento per superamento del periodo di comporto o per scarso rendimento, la fattispecie giuridica è il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica.

 

La sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore è stata ricondotta dalla giurisprudenza alla disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo regolamentati dall’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604., Norme sui licenziamenti individuali, anche se l’articolo non la menziona espressamente. Tuttavia, nell’ambito del licenziamento per sopravvenuta inidoneità sopravvenuta risulta applicabile anche l’obbligo di repêchage così come stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Unite, 7 agosto 1998, n. 7755. Seguendo quest’interpretazione, la sopravvenuta inidoneità psicofisica costituisce giustificato motivo di licenziamento unicamente nel caso in cui il datore di lavoro abbia verificato che la capacità lavorativa residua del lavoratore non è compatibile con le mansioni assegnatagli o con altre equivalenti o, se questo è impossibile, anche ad altre inferiori, a condizione che l’attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.

 

Nel caso che ci occupa, l’azienda afferma nella lettera di licenziamento di aver svolto l’attività di verifica circa la possibilità di trovare un’occupazione diversa per il lavoratore rispettando così l’obbligo di repêchage. Tuttavia, l’azienda fa quest’affermazione in maniera generica senza apportare prove a riguardo. Invece, qualora il lavoratore facesse causa allegando l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro avrebbe l’onere di provare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione lavorativa disponibile. Inoltre, nel caso in cui il lavoratore fornisse elementi per individuare posti disponibili all’interno dell’azienda compatibili con il suo bagaglio professionale, il datore di lavoro dovrebbe provare l’impossibilità di adibirlo alle posizioni lavorative da lui indicate come disponibili. La prova acquisisce una grande rilevanza in questi casi, così come la necessità di analizzare il caso concreto per comprendere le possibilità effettive di ricollocare il lavoratore in funzione delle caratteristiche dell’azienda così come in funzione della sua capacità lavorativa. Qualora l’azienda riuscisse a dimostrare in sede di giudizio che non è possibile trovare una sistemazione diversa per il lavoratore all’interno dell’azienda, considerando il quadro giuridico vigente, il licenziamento per inidoneità sopravvenuta potrebbe essere qualificato come legittimo.

 

Nel caso oggetto di analisi, il lavoratore torinese non farà causa posto che, a seguito del grande impatto mediatico del caso, l’azienda ha riconsiderato la sua decisione e la vicenda è stata risolta attraverso un accordo con le organizzazioni sindacali. Il lavoratore potrà scegliere tra tornare a lavorare in azienda oppure accordarsi per una buonuscita con aggancio alla pensione. In attesa di sapere quale sarà la decisione finale che prenderà il lavoratore, può dirsi che in questo caso concreto, trattandosi di un “operaio universale” di 55 anni di un’azienda metalmeccanica, anche se di dimensioni non ridotte, adibirlo a mansioni diverse da quelle finora svolte, senza una adeguata qualificazione professionale, non sembra un compito facile.

 

Sebbene questo caso concreto sia stato risolto grazie al sistema di relazioni industriali che potrebbe giocare un ruolo decisivo nel ritorno al lavoro dei malati cronici (Cfr. M. Tiraboschi, “Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche”, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 36/2015) questo non sempre sarà possibile posto che spesso non si hanno le condizioni per arrivare a un accordo. In questo caso si è svolto anche uno sciopero di solidarietà da parte dei colleghi.

 

In casi come questi, il principale problema è garantire l’equilibrio tra la libertà d’iniziativa economica del datore di lavoro e l’interesse del lavoratore alla stabilità del lavoro così come alla protezione della propria salute. Per questo motivo, risulterà difficile esigere dall’impresa la “responsabilità di garantire un’opportunità ai lavoratori che vivono situazioni come quelle dell’operaio torinese” come afferma il ministro Poletti, se poi non si offrono alle aziende gli strumenti per poter garantire la conservazione e il ritorno al lavoro dei lavoratori con malattie croniche. In questo contesto, è necessario capire che la responsabilità è attribuibile non soltanto alle aziende ma anche alla società in generale e, in primis, al Governo. Serve a ben poco condannare le aziende che licenziano i lavoratori con una capacità lavorativa ridotta a causa di una malattia quando nell’ordinamento giuridico italiano la sopravvenuta inidoneità fisica costituisce una causa legittima di licenziamento. A questo punto, una soluzione potrebbe consistere in un intervento volto a reinterpretare il concetto d’inidoneità sopravvenuta e la possibilità che essa costituisca un motivo di licenziamento per motivo oggettivo nel caso di malattie gravi che, come nel caso che ci occupa, possono tradursi in una capacità lavorativa ridotta con carattere permanente.

 

Silvia Fernández Martínez

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@Silvia_FM_

 

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