“Legge sul caporalato”, relazioni sindacali e rappresentanza in agricoltura. A colloquio con Roberto Caponi, responsabile dell’Area sindacale di Confagricoltura

A latere dei commenti riservati all’approvazione del DDL 4008, comunemente conosciuto come “Legge sul caporalato” (al momento in cui si scrive in corso di pubblicazione), la sua emanazione ha lasciato traccia anche sul terreno delle relazioni sindacali in agricoltura. In un susseguirsi repentino di mosse e contromosse politico-strategiche delle organizzazioni di rappresentanza, si è assistito a momenti di intensa fibrillazione, da tempo sconosciuti al sistema agricolo, consolidatosi ampiamente su un trend di buone prassi relazionali. Dalla lettera al territorio con cui Confagricoltura – in vista dell’approvazione del DDL – sospendeva le trattative di rinnovo dei contratti provinciali di lavoro degli operai agricoli (11 ottobre), cui ha fatto seguito, il 20 ottobre, l’indizione congiunta di otto ore di sciopero[1] da parte di FLAI, FAI e UILA, il 26 ottobre Confagricoltura ha, infine, ridato il via alle trattative[2].

Di tali turbolenti accadimenti, e di altro ancora, abbiamo chiesto conto a Roberto Caponi, responsabile dell’Area sindacale di Confagricoltura, da circa trent’anni in Confederazione e tra i primari protagonisti del sistema di relazioni sindacali in agricoltura, nonché presidente dell’EBAN, ente bilaterale agricolo nazionale.

 

Direttore Caponi, andiamo subito al punto. Le buone relazioni sindacali costruite nel tempo sembrano aver tentennato davanti all’approvazione della cd. legge sul caporalato. Sospensione, indizione dello sciopero, riapertura delle trattative, tutto in pochi giorni. Verrebbe da pensare che Confagricoltura abbia sofferto un simile provvedimento.  

Innanzitutto vorrei precisare che, nonostante si voglia far passare l’idea che Confagricoltura sia “nemica” della legge, è vero esattamente il contrario. Parla il nostro codice etico, che prevede espulsione immediata per le imprese che non si muovono all’interno della legalità del lavoro, nonché l’ampia serie di Protocolli firmati contro il lavoro nero, il caporalato, lo sfruttamento del lavoro. Ma comprendo che è più semplice, a livello politico e mediatico, innalzare un muro tra chi difende il caporalato e chi lo combatte. Le cose, com’è ovvio, sono molto più complesse.

 

Si spieghi meglio.

Il caporalato non è certo un fenomeno moderno, ma risalente negli anni, addirittura antichissimo. In agricoltura ha sempre trovato terreno fertile, è vero. Ma non al punto da esserne connaturato. La maggior parte delle aziende agricole non si avvale di mediatori illeciti, non sfrutta i propri lavoratori. Ma questo messaggio non è passato. Anzi è passato quello esattamente opposto. Agricoltura uguale caporalato e sfruttamento.

 

Quindi?

Posto che la legge ha una ratio punitiva ampiamente condivisibile, l’essere tornati a parlare di tale piaga, di recente e solo in riferimento all’agricoltura – per quanto sulla scorta di vicende drammatiche e spregevoli – fa sospettare che dietro la simbologia di una “legge di civiltà” si celi il proposito, di taluni, di cavalcare l’onda dello scandalo collettivo suscitato dalle pratiche disumane. Uno po’ per convenienza politica, un po’ per riguadagnare terreno al livello della rappresentanza. Nell’uno e nell’altro caso, secondo una visione manichea che con il reale ha poco a che vedere.

 

Sta dicendo che è una legge “interessata”?

No. E’ una legge doverosa. Perfettamente condivisibile nelle finalità. Ma non si può dire, per promuovere la legge, che in agricoltura 400 mila lavoratori sono intermediati dai caporali e sottoposti a sfruttamento. Dire questo significa affermare che tutti i lavoratori agricoli sono sfruttati, in quanto nelle campagne italiane, secondo l’ISTAT, non lavorano mai contemporaneamente più di 400-450 mila lavoratori. È un dato inverosimile, senza alcun addentellato scientifico, che getta discredito indiscriminato su tutta l’imprenditoria agricola, anche sulle aziende più grandi, moderne e organizzate, che noi in larga parte rappresentiamo. Perché poi si parla solo dell’ultimo anello della catena, ossia delle imprese agricole? Perché non parlare anche degli altri componenti della “filiera dello sfruttamento”, che comincia dal racket dell’immigrazione clandestina, passa per la gestione lacunosa di quella legittima, arriva ai caporali, ai trasportatori e, infine, agli imprenditori senza scrupoli? Se non si affrontano tutti i passaggi, il problema non si risolve.

 

Quali punti della legge, Confagricoltura considera a tal punto critici, da aver giustificato un niet al rinnovo dei contratti provinciali, poi rientrato?

La legge, come detto, è perfettamente condivisibile nelle finalità. Ma non effettua i necessari distinguo tra chi, con violenza e minaccia, sfrutta ignobilmente i lavoratori sottoponendoli a trattamenti degradanti e disumani e chi, invece, assume ed assicura regolarmente i propri dipendenti, ma incorre in qualche violazione, anche occasionale, di norme in materia di retribuzione, orario di lavoro e igiene e sicurezza. La legge poi non definisce in modo tassativo la condotta vietata, lasciando ampio margine di discrezionalità agli ispettori, prima, ed ai giudici, poi. Peraltro il problema non è solo agricolo, ma di tutti, perché la legge, nella parte in cui modifica il codice penale, riguarda tutti i datori di lavoro, di ogni settore produttivo.

 

Ed allora perché un niet al rinnovo?

Non si è trattato di un niet. E neppure di una ripicca contro i sindacati, che non approvano le leggi. Tutt’al più ha rappresentato una pausa di riflessione, finalizzata alla elaborazione di una linea condivisa con il territorio affinché, per mezzo dei contratti, si giunga a soluzioni che allontanino i rischi annessi all’attuale formulazione del reato. Più in particolare, oltre ad altre perplessità, riteniamo che il vero vulnus del provvedimento sia rappresentato dagli indici di sfruttamento connessi alla nuova condotta criminosa. Troppo generici e vaghi. Così come formulati, niente impedirà che, per una irregolarità veniale, ad esempio, in materia di igiene, si avvii un procedimento penale ai danni di un imprenditore, che potrà essere considerato certamente negligente, ma non uno sfruttatore.

 

E perché reagire con una sospensione delle trattative che non ha avuto precedenti, almeno di recente?

Per il semplice fatto che tra gli indici di sfruttamento sono previste almeno due materie di competenza anche della contrattazione collettiva, quali la retribuzione e l’orario di lavoro. Si è ritenuto doveroso un coordinamento strategico con il territorio, per definire meglio quale valore attribuire alle rispettive voci nei contratti a venire, così da evitare che possano trasformarsi in indici di sfruttamento tout court.

 

Ora le trattative andranno avanti, o si assisterà a nuove scosse?

Seguiteranno dal punto in cui si erano interrotte. Vede, Confagricoltura è storicamente l’organizzazione datoriale che traina la contrattazione collettiva per le aziende agricole. Perché considera la stessa la prima forma di tutela del lavoro e dell’impresa, e la sostanza della rappresentanza associativa. La contrattazione è il nostro DNA. Per questo avvertiamo la responsabilità di salvaguardare i diritti dei lavoratori, che avrebbero rischiato di andare in sofferenza se la sospensione si fosse protratta ulteriormente nel tempo.

 

Il Segretario generale della UILA, Stefano Mantegazza, all’indomani dell’approvazione della legge sul caporalato, salutandola come legge di civiltà, ha contemporaneamente manifestato l’esigenza che il mercato del lavoro agricolo venga “gestito tra parti sociali”. Qual è la Sua posizione in merito?

E’ sicuramente interessante intraprendere un percorso di “avvicinamento avanzato” tra associazioni datoriali e sindacali affinché domanda e offerta possano incontrarsi nel segno della legalità e dell’innovazione tecnologica dell’impresa moderna. Occorre però salvaguardare la possibilità di scelta del datore di lavoro, che deve poter assumere chi vuole, attraverso i canali di selezione consentiti dalla legge, che devono essere plurimi, pubblici e privati. Altra questione importante è quella della professionalità. Occorre adeguare l’offerta alla nuova domanda di professionalità altamente qualificata e capace di interagire con le nuove tecnologie dell’Agricoltura di Precisione, rafforzando la collaborazione con il sistema universitario e della ricerca.

 

L’Agricoltura di Precisione condizionerà anche le relazioni sindacali?

Certamente. Già lo fa. Le nuove tecnologie insistono sui processi produttivi. I processi produttivi agiscono su quelli organizzativi, e a cascata sulla produttività del lavoro. La domanda di maggiore produttività si riconnette all’esigenza di adeguate professionalità. Il cui riconoscimento, a sua volta, passa per i sistemi classificatori, dunque per la retribuzione, per la formazione, per la sicurezza del lavoro e, più in generale, per tutte quelle materie contrattuali su cui le relazioni sindacali incidono sostanzialmente. L’Agricoltura di Precisione influirà perfino sui rapporti tra livelli contrattuali, obbligando a fare i conti con i nuovi scenari di cui già si intravedono gli effetti sul piano sociale, economico-produttivo e culturale.

 

Francesco Piacentini

Dottorando in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@Fra_piace87

 

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[1] Dal 7 novembre al 20 novembre.

[2] Al momento in cui si scrive i sindacati non hanno ancora formalmente disdetto lo sciopero.

“Legge sul caporalato”, relazioni sindacali e rappresentanza in agricoltura. A colloquio con Roberto Caponi, responsabile dell’Area sindacale di Confagricoltura
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