Le tutele moderne di un welfare evoluto

Quella sui dati del mercato del lavoro in Italia sembra ormai essersi trasformata nella madre di tutte le battaglie. Ad ogni diffusione si levano i cori dei sostenitori e dei detrattori delle ultime riforme del lavoro, spesso alimentando la confusione e a volte la disinformazione nel pubblico. Da ultimo gli ultimi dati INPS hanno dato vita ad una querelle, ospitata anche sulle pagine di questo giornale. Innanzitutto due osservazioni di metodo. All’interno del dibattito viene dato per scontato, da entrambe le parti, il nesso causale tra qualsivoglia variazione del numero dei contratti e degli occupati e il Jobs Act, come se non vi fossero altri fattori in gioco (scenario economico, situazione internazionale, interventi della BCE e soprattutto gli effetti della riforma Fornero delle pensioni come lascia ipotizzare l’aumento della occupazione degli over 55). In secondo luogo l’Italia è un Paese senza la cultura del monitoraggio, troppo spesso si fanno leggi e si spendono soldi pubblici senza valutazioni d’impatto ex ante e poi queste misure vengono riconfermate o abbandonate senza un vero monitoraggio ex post degli effetti. E da questo scaturiscono osservazioni di merito. Prima fra tutti la vuota discussione sul numero dei licenziamenti, che vede contrapporsi chi sostiene la loro crescita e chi valuta l’aumento in relazione alla crescita dei contratti di lavoro. Discussione vuota perché a fronte di un esonero contributivo triennale che terminerà nel 2018 per festeggiare o meno è necessario aspettare il momento in cui il costo del lavoro per le imprese che hanno assunto tornerà pieno, e non si avrà più l’articolo 18 come tutela. Una nuova misura di decontribuzione, se ha senso, andrebbe valutata dunque non ora ma solo a fronte di un monitoraggio attento e condiviso degli effetti della misura che nel 2015 ha accompagnato il varo del Jobs Act.

 

Il secondo aspetto di merito riguarda i contratti a tempo determinato. Nella visione del Governo e dei suoi consiglieri economici questi sarebbero tornati a crescere dopo che per due anni si era invertita la tendenza, e questa dinamica era prevedibile dopo l’esaurirsi degli incentivi. In realtà l’Istat mostra come da gennaio 2015 a marzo 2017 gli occupati a tempo determinato siano cresciuti del 9,3% rispetto al 3,4% di quelli a tempo indeterminato. Inoltre il numero di occupati a termine sul totale è in costante aumento negli ultimi tre anni e ha raggiunto il suo apice proprio nel 2015 e nel 2016.

 

Ma al di là dei singoli dati e dei singoli trend ci paiono altri i criteri con i quali valutare il Jobs Act. L’atto meritorio di togliere la vecchia tutela dell’articolo 18, inadeguata a governare i nuovi mercati del lavoro, ci aveva fatto credere nel definitivo superamento del dibattito sulla “stabilità” del lavoro propria dei modelli produttivi di un Novecento che non c’è più. Al contrario invece sembra che oggi il centro del confronto politico e sindacale sia ancora sul rassicurare che la riforma ha aumentato i “posti fissi”, lasciando così in secondo piano tutta la serie di tutele sul mercato del lavoro (si pensi alle politiche attive e di ricollocazione) ancor più necessaria in uno scenario in cui i contratti a termine sono in crescita, e soprattutto quelli a breve durata. Il tutto in modo paradossale, poiché è proprio il Jobs Act ad aver liberalizzato il contratto a termine. A questo si aggiunge l’ostinazione a considerare il mondo del lavoro solo bianco o nero, autonomo o subordinato, stabile o precario, eliminando tutte le nuove forme contrattuali utili, come il lavoro a progetto di Marco Biagi, a regolare quella vasta area grigia che sempre più caratterizza la grande trasformazione tecnologica in atto e i processi di Industria 4.0. Come ha mostrato recentemente l’Istat, negli ultimi 8 anni abbiamo avuto 1 milione di operai e artigiani in meno, 480mila personale non qualificato e 752mila figure esecutive nei servizi e nel commercio in più: è chiaro che non è la stabilità ma la transizione e la continua trasformazione la cifra del mercato del lavoro contemporaneo. E questa non potrà che essere potenziata dalle grandi forze che muoveranno il mercato nei prossimi anni, prime tra tutti la tecnologia e la demografia.

 

Il nodo, numeri a parte, sta nel decidere se vogliamo affrontare queste sfide con l’arma della stabilità, delle politiche passive, dei tirocini e degli incentivi spot o se, invece, vogliamo davvero costruire tutele moderne incentrate su un welfare della persona e sulla sua capacità di muoversi e crescere, come attitudini e competenze professionali, in un mercato in costante transizione.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

*Pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2017

 

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