Le transizioni occupazionali nella nuova geografia del lavoro: dieci domande di ricerca

Mentre la dottrina italiana ancora oggi indugia sul concetto di flexicurity – sollecitando il Legislatore a completare il processo di riforma delle leggi sul lavoro sul versante delle politiche attive – già sul volgere del secolo scorso la letteratura internazionale proponeva un innovativo approccio teorico alla lettura delle trasformazioni del lavoro e delle sue possibili forme di regolazione e tutela che ha preso il nome di «mercati transizionali del lavoro» (vedi G. Schmid, “Il lavoro non standard. Riflessioni nell’ottica dei mercati transizionali del lavoro”, Diritto delle Relazioni Industriali, N.1/XXI – 2011). Con questa espressione si intende, in particolare, una nuova concezione del mercato del lavoro come sistema sociale aperto e del lavoro stesso come categoria che intercetta diversi possibili status e condizioni.

 

Da ciò il suggerimento di spostare il focus dallo “status occupazionale” ad una idea di “statuto professionale” che includa tutte le possibili forme di lavoro – ripercorrendo le analisi di fine secolo scorso di A. Supiot – immaginando un nuovo modello di regolazione del lavoro basato su interventi complementari tra loro: l’introduzione di “nuovi” diritti sociali (active social securities); politiche attive in grado di coniugare occupabilità individuale e competitività; una idea di protezione che vada oltre la tutela contro il rischio di disoccupazione (unemployment insurance a employment insurance); lo sviluppo di strumenti di gestione condivisa dei rischi e la creazione di learning community, intese come collettività in grado di elaborare strategie concertate di sviluppo tramite patti sociali o convenzioni territoriali. La principale indicazione di policy della teoria dei TLM è “make transitions pay”: da un lato, acquista peso sempre più crescente il tema della occupabilità e della dotazione individuale di risorse da mobilitare nel lavoro e nei passaggi tra diversi status occupazionali; dall’altro, nuove alleanze e nuove sicurezze si costruiscono intorno al tema della produttività dei sistemi economici, dei territori e dei lavoratori.

 

La scarsa eco di questa impostazione nel dibattito nostrano (cfr., tra i pochi, B. Caruso, “Occupabilità, Formazione, e Capability, nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro”, in DLRI, 2007; B. Caruso, M. Cuttone, “Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione tra Europa, Stato e Regioni”, Diritto delle Relazioni Industriali, N.1/XXVI – 2016) è senza dubbio una conferma della difficoltà della nostra dottrina ad entrare nel dibattito internazionale sulla grande trasformazione del lavoro. Eppure, la teoria dei «mercati transizionali del lavoro» assume un indubbio valore nella ricerca di soluzioni e percorsi alternativi alla mera tecnica della deregolazione dello statuto protettivo del diritto del lavoro in risposta alle sfide di una competizione giocata da tempo su scala globale. Un primo punto di forza è il superamento della contrapposizione tra mercati del lavoro interni ed esterni consentendo di cogliere appieno le continue interazioni tra le due dimensioni in una prospettiva di ciclo di vita. Un secondo punto di forza è il superamento della netta separazione tra il lavoro regolato da un contratto e le altre forme di attività socialmente produttive (dalla formazione, alla cura) che sono in grado di accrescere l’occupabilità delle persone…

 

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