Le quote di genere. L’Italia, dà il buon esempio alla Germania

Il Bundestag ha recentemente approvato, a larga maggioranza, dopo un lungo e acceso dibattito, una normativa, che prevede l’introduzione di quote di genere in imprese private e del settore pubblico. Secondo, infatti, gli ultimi dati del Ministero della giustizia tedesco, la percentuale di donne dei consigli di amministrazione e di presidenza delle aziende è pari solo al 12,4%, al di sotto quindi della media europea, che si attesta al 20,2% (Commissione europea, Database on women and men in decision making, 2015) .
 
L’intervento prevede nello specifico che, a partire dal 2016, una quota del 30% (che salirà nel 2008 al 50%), sia riservata al genere meno rappresentato e riguarderà circa 108 imprese quotate in borsa e cogestite dai lavoratori. Sanzione per la mancata nomina, è che i posti rimarranno vanti
 
Per quanto attiene invece alle imprese, che sono o quotate o cogestite, per un totale di 3500 circa, è previsto l’obbligo che siano le stesse a determinare dei propri obiettivi di quote di genere nei consigli di amministrazione e nei quadri, ma non sono previste sanzioni, qualora non li raggiungono. Quali potranno essere gli effetti della sua adozione?
 
Per rispondere a tale quesito, osserviamo cosa è accaduto in Italia, dove una normativa analoga, ma più incisiva in termini di misure e sanzioni, è presente dal 2011. L’applicazione dell’azione positiva in questione, volta al riequilibrio di genere nei board e nei collegi sindacali delle società quotate e a gestione pubblica italiane, è stata imposta dalla legge n. 120 del 2011 – meglio nota come Golfo-Mosca – in quota crescente, per tre rinnovi. Per cui, la riserva al genere sottorappresentato, è stata inizialmente fissata ad un quinto, per arrivare nei successivi due, ad un terzo. Da quest’anno la quota per le donne è, quindi, pari al 33%. Le società, che non si adeguano, vengono diffidate dalla Consob e se persistono nell’inottemperanza rischiano, sanzioni pecuniarie da 100mila euro a 1 milione per i consigli di amministrazione e dai 20mila e 200mila euro per i collegi sindacali, nonché la decadenza degli organi societari.
 
Secondo gli ultimi dati, in virtù delle quote di genere, le donne nei boards, sono passate da un modesto 5,5% del 2010 al 22,7% attuale (elaborazioni della Prof.ssa Paola Profeta dell’Università Bocconi, su dati CONSOB). Tali azioni positive hanno, pertanto, accelerato un processo che, secondo stime della Banca d’Italia, se fosse proseguito al tasso medio di crescita precedente, la quota del 33%, non si sarebbe potuta raggiungere prima di 60 anni (M. Bianco-F. Lotti-R. Zizza, Le donne e l’economia italiana, 2013).
 
Gli effetti positivi generati, però, non sono stati solo in termini di riduzione del gender gap. Dallo studio Women mean business and economic growth, in corso presso il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in cui sono stati analizzati circa 3170 curriculum vitae di consiglieri di società interessate dalla legge, è emersa un’accresciuta trasparenza nel percorso di analisi e scelta dei candidati, con un conseguente innalzamento dell’asticella del merito e un abbassamento dell’età.
 
In antitesi, quindi, a quello che era uno dei principali argomenti contrari all’introduzione delle quote, uno dei primi esiti positivi è una maggiore attenzione proprio a quel merito, che si temeva invece venisse penalizzato. Inoltre, l’introduzione delle quote non si è associata ad altre due possibili criticità che si paventavano, ossia: poche donne in molti consigli, e l’aumento dei consiglieri scelti all’interno di uno stesso contesto famigliare. Come visto per la questione merito è accaduto l’esatto contrario, in quanto le posizioni multiple sono diminuite, in particolare tra le donne (dal 25,4% al 18,6%), segnalando quindi un allargamento della platea di candidati dai quali sono selezionati i consiglieri, mentre le donne legate da rapporti di parentela con altri componenti del consiglio sono passate addirittura dal 16,2 al 7,9% (si veda J. Ignacio Conde-Ruiz, P. Profeta, Quote rosa italiane, un modello che funziona, in ilfattoquotidiano.it, 7 marzo 2015).
 
Ma oltre ai numeri, c’è di più. Come comprovato da diversi studi sul punto, esistono correlazioni positive tra l’aumento della presenza femminile nei boards e il miglioramento delle performances aziendali (si vedano, ad esempio, gli studi Credit Suisse, The CS gender 3000: women in senior management, 2014; Credit Suisse, Gender diversity and corporate performance, 2012). Tra i vantaggi “microeconomici”: il miglioramento della qualità del processo decisionale, nella gestione delle relazioni all’interno dell’azienda e con gli stakeholders, nella prevenzione e nella gestione dei conflitti, nell’etica e nella corporate governance, nella valorizzazione dei talenti, oltre ad un aumento della creatività e dell’innovazione e una minore propensione al rischio; mentre tra quelli “macroeconomici”: la creazione di circoli virtuosi utili all’economia, in termini di crescita sostenibile. Inoltre le aziende con una composizione più bilanciata tra i generi hanno dimostrato una maggiore resistenza alla crisi, maggiori ricavi, valutazioni e payout ratio più elevati. Infatti, secondo l’ultimo studio del Credit Suisse, fin dall’inizio del 2012 si è registrato un +5% di outperformance su base settoriale da parte di quelle società, che avevano almeno una donna nei CdA e un’analisi della tendenza sul lungo periodo mostra un incremento nei ricavi annui addizionali del 3,7% dal 2005.
 
Aumenta il merito e migliorano le performance, tracciando un binario virtuoso; perché non percorrerlo?
 
Rosita Zucaro
Scuola di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@RositaZucaro
 
Golo Weidmann
Rechtsanwalt e Fachanwalt für Arbeitsrecht – Avvocato specializzato in Diritto del lavoro
Studio legale WilmerHale LLP, Francoforte sul Meno
 
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