Le parole del lavoro: un glossario internazionale/14 – Per distinguere l’autonomia dalla subordinazione

Ogni attività umana può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata”; è questa uno delle premesse e dei principi cardine in materia lavoristica sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, quando specificamente è chiamata a dover distinguere se un determinato rapporto di lavoro rientri nell’ambito delle tutele proprie del lavoro dipendente, ben più marcate, oppure in quelle del lavoro autonomo, o, anche, parasubordinato, decisamente meno definite e garantistiche.
 
Sotto l’aspetto formalistico la distinzione appare ben delineata; il riferimento al lavoro subordinato è contenuto nell’art. 2094 c.c., ed ai due pilastri che ne sorreggono la stesura: il sinallagma collaborazione contro retribuzione nel primo periodo, ed il criterio della “eterodirezione”, nel secondo. Di tali fondamenti, soltanto il principio di corrispettività è mantenuto nell’art. 2222 c.c., che disciplina invece il lavoro autonomo, mentre in senso diametralmente opposto la norma civilistica, nello stesso articolo,  colloca l’aspetto della subordinazione, la cui assenza è il vero discrimine tra le due tipologie (“….con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione”: art. 2222 c.c.).
 
Tuttavia, la semplicità di lettura è soltanto apparente; non si spiegherebbe, altrimenti, la grande mole di controversie che assediano i tribunali del lavoro, nei diversi gradi di giudizio, ogni qualvolta si debba dibattere sulla reale natura di un rapporto di lavoro.  La realtà rivela un confine assai labile tra le due differenti tipologie in argomento, e richiede, in ogni singolo caso, l’attenta analisi sia delle parti, nel momento costitutivo del rapporto di lavoro, sia dell’organo giudicante nella fase conflittuale, delle concrete modalità di svolgimento del rapporto.
 
Per agevolare la corretta individuazione della forma di rapporto di lavoro concretamente attuabile, e le conseguenti tipologie di tutele applicabili, al di là del nomen iuris che più o meno consensualmente le parti intendono attribuire al contratto di lavoro, la stessa giurisprudenza e cospicua dottrina hanno individuato una serie di criteri di cui gli operatori del lavoro tengono, o dovrebbero tenere, conto.
 
Anzitutto, si richiama il già citato aspetto della “eterodirezione”, ovvero della imposizione, da parte del datore di lavoro, delle modalità di attuazione attraverso le quali l’attività lavorativa deve essere prestata; tale potere non è, si aggiunge, incompatibile con margini di discrezionalità anche ampi nella esecuzione della prestazione – si pensi a mansioni ad alto contenuto professionale – che al dipendente è necessario talvolta garantire. Da non confondere, inoltre, il concetto di subordinazione con l’altrettanto necessario criterio del “coordinamento”, che ben può – e deve –  essere presente da parte del committente dell’opera anche nelle attività di lavoro autonomo, e che risulta funzionalmente necessario alla corretta esecuzione della prestazione.
 
Accanto a tale primo fondamentale aspetto, vi è l’uso del potere disciplinare, istituto tipico ed esclusivo del rapporto di lavoro subordinato, nelle accezioni delineate sia dall’art. 2106 c.c. che dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, ed invece in tali forme completamente assente nella fattispecie autonoma. L’esistenza del potere disciplinare prescinde, peraltro, dalla concreta applicazione di sanzioni a carico del dipendente, quanto piuttosto si realizza anche soltanto mediante la stesura di un codice disciplinare ed il richiamo al rispetto di questo da parte degli operatori dell’azienda.
 
Altro criterio tra quelli ritenuti discriminanti è quello attinente al potere di controllo, che si sviluppa, nel caso del lavoro subordinato, nella costante vigilanza datoriale sull’operato del dipendente; anche sotto quest’ottica, non è inusuale riscontrare, tuttavia, anche in talune forme di lavoro autonomo, o parasubordinato, forme di coordinamento e di controllo che il committente ritiene di dover esercitare sull’operato del prestatore, al fine dell’ottenimento di un risultato finale che corrisponda a quanto pattuito contrattualmente.
 
La coesistenza dei tre criteri sommariamente enunciati, e l’accertamento della effettiva sussistenza di questi, permette, nella maggior parte dei casi, di esprimere una valutazione abbastanza certa e fondata sulla reale natura del rapporto di lavoro che le parti hanno inteso far sorgere.
 
In taluni casi, tuttavia, la valutazione non si presenta così semplice, o semplicistica; la particolare natura della mansione – si pensi, come già accennato, a particolari performance intellettuali o caratterizzate da spiccate caratteristiche tecniche le cui competenze spesso sfuggono o sono totalmente sconosciute anche alla direzione datoriale – o, anche, la “pressione”, spesso non correttamente esercitata, con riguardo al potere di controllo datoriale o del committente, possono “spostare” il baricentro della valutazione verso l’una o l’altra tipologia tra le due in esame.
 
La stessa giurisprudenza ha ritenuto di dover individuare e tener conto di ulteriori criteri distintivi – per così dire ”secondari” o ausiliari, nel senso che singolarmente considerati non fungono da indicatori assoluti – da affiancare a quelli principali già sinteticamente esaminati, al fine di dotarsi di ulteriori strumenti utili ad una corretta determinazione della reale natura del rapporto di lavoro.
 
Si pensi, ad esempio, allo stesso nomen iuris che le parti hanno inteso attribuire al rapporto; non si vuole pertanto escludere dalla valutazione complessiva la concreta volontà che le  parti hanno inteso attribuire al contratto.
 
Altro indice di subordinazione lo si riscontra nella valutazione del tempo di lavoro; l’accertamento della esistenza di vincoli di presenza in azienda, ed il rispetto di un orario di lavoro, aiutano a propendere verso un rapporto di lavoro dipendente, sebbene, in alcune forme di parasubordinazione – che è una delle forme con cui una attività autonoma può esercitarsi – può essere prevista una esecuzione delle prestazioni negli orari di presenza in azienda di altro personale, o negli orari di apertura della struttura aziendale, sebbene il rispetto di questi non possa essere oggetto di rigido controllo da parte del committente, né, ovviamente, il mancato rispetto può formare oggetto di procedimento sanzionatorio.
 
Anche la forma della retribuzione – corrisposta in maniera fissa e predeterminata – è solitamente indice di subordinazione, così come la continuità della prestazione, anche se, con riguardo a tale ultimo aspetto, lo stesso criterio lo si possa facilmente individuare anche nelle caratteristiche tipiche del lavoro parasubordinato (non a caso definito di “collaborazione coordinata  e continuativa”), e dunque autonomo.
 
Importante è il rilievo che la giurisprudenza affida all’inserimento del prestatore nella organizzazione aziendale; l’autonomia nella prestazione solitamente si concretizza nella realizzazione di un’opera o di un risultato come espressione della organizzazione propria del lavoratore, e non come una mera messa a disposizione delle sue energie, aspetto invece preminente nella prestazione subordinata.  Collegata alla posizione autonoma è anche la presenza del c.d. “rischio di impresa”, per il quale ben può ammettersi la non economicità della prestazione in termini di risultati positivi e la conseguente esclusione dal principio di sufficienza dettato dall’art. 36 Cost., così come della “organizzazione di mezzi” in capo al soggetto autonomo; l’assenza dell’uno e dell’altro elemento fanno solitamente propendere per una simulazione di autonomia.
 
Per concludere, l’accertamento condotto dagli organismi di vigilanza verso qualunque rapporto di lavoro è solitamente mirato ad una valutazione quantitativa e qualitativa sugli elementi fin qui dedotti,  al fine di dissimulare eventuali rapporti di lavoro autonomo i cui contenuti e le concrete modalità di svolgimento mal si conciliano con gli indicatori propri della subordinazione, nel cui ambito finiranno per essere convertiti i rapporti accertati con caratteristiche di irregolarità; su toni analoghi si compie la valutazione dell’organo giudiziale, sollecitato su istanza della parte debole del rapporto di lavoro.
 
Giovanni Alessio Tala
Studente FAD in Relazioni di Lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
@giannitala
 
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