Le clausole di costo del lavoro negli appalti pubblici e il diritto UE

Le clausole di costo del lavoro presenti nelle discipline nazionali relative agli appalti pubblici degli stati membri sono state più volte oggetto di censura da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

Attualmente la norma nazionale in materia di tariffe minime salariali è contenuta nell’art. 30, comma 4 del D.Lgs. n. 50/2016 (nuovo Codice contratti pubblici) che dispone: “Al personale impiegato nei lavori oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.” Tale disposizione va letta in connessione con i primi due periodi del comma 9, art. 105 del nuovo codice, inerenti al subappalto, che recitano: “L’affidatario è tenuto ad osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni. È, altresì, responsabile in solido dell’osservanza delle norme anzidette da parte dei subappaltatori nei confronti dei loro dipendenti per le prestazioni rese nell’ambito del subappalto”.

 

Questa regolazione si pone in continuità con la disciplina operante a partire dal 2010 in quanto già il regolamento esecutivo del previgente codice dei contratti pubblici (art. 4, comma 1, DPR N. 207/2010 attuativo del D.Lgs. n. 163/2006) conferiva efficacia erga omnes alla contrattazione collettiva nazionale comparativamente più rappresentativa, mentre la disposizione di cui all’art. 105, comma 9 del nuovo codice è identica alla disposizione di cui all’art. 118, comma 6 del precedente codice.

 

È da ricordare che i profili di criticità della normativa in esame alla luce del diritto europeo riguardano solo i contratti pubblici di rilevanza europea, ovvero quelli il cui valore stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto è pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35, D.Lgs. n. 50/2016 e che non rientrano tra i contratti esclusi.

 

La giurisprudenza europea sul costo del lavoro negli appalti pubblici

 

La giurisprudenza della corte di Giustizia dell’Unione Europea ha fissato una serie di principi in tema di legittimità delle clausole sociali negli appalti pubblici, con riferimento non solo al profilo del costo del lavoro, ma anche in relazione alle clausole di stabilizzazione dei lavoratori in occasione dei cambi di appalto e al diritto di sciopero.

 

Per quanto concerne il primo profilo le cause di riferimento sono Rüffert (C-346/2006), Bundesdruckerei GmbH (causa C-549/2013) e RegioPost GmbH & Co. KG (C-115/2014).

Nella causa Rüffert la controversia verteva sulla legittimità della revoca da parte di un ente pubblico tedesco dell’aggiudicazione di un appalto di lavori in ragione del fatto che il subappaltatore polacco aveva retribuito i lavoratori distaccati secondo livelli inferiori a quelli imposti dal contratto collettivo applicabile nel settore degli appalti pubblici, pur rispettando il contratto di categoria dotato di efficacia generale a livello di Land; la circostanza che un contratto collettivo fosse applicabile solo ai lavoratori impiegati nell’ambito di un appalto pubblico ha condotto la Corte a negarne la natura di contratto ad efficacia generale di cui all’art. 3.8 della Direttiva 96/71/CE sul distacco transnazionale di lavoratori, ravvisando quindi la violazione di quest’ultima normativa.

 

La causa Bundesdruckerei GmbH aveva ad oggetto la impugnazione da parte di una società tedesca partecipante ad un bando di appalti pubblici di servizi di digitalizzazione di documenti indetto da una municipalità tedesca di una clausola che avrebbe imposto alla società polacca subappaltatrice (controllata al 100% dalla ricorrente) di applicare il salario minimo legale tedesco ai propri lavoratori, pur essendo il subappalto da delocalizzare in Polonia. La corte ha ritenuto violare il principio della libera circolazione dei servizi l’imposizione ai subappaltatori, stabiliti in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’amministrazione aggiudicatrice, di una retribuzione minima legale (peraltro applicabile ai soli appalti pubblici) superiore a quella dello stato di stabilimento della società e di esecuzione del servizio, in quanto misura sproporzionata rispetto alla tutela del lavoro, atteso che non prendeva in considerazione le differenze di costo della vita tra stati membri. A questa conclusione la Cge è giunta nella vigenza dell’art. 26 della Direttiva n. 2004/18/CE sugli appalti pubblici che consentiva l’apposizione di condizioni particolari di tutela del lavoro, purché compatibili con il diritto comunitario, vanificando la reazione del legislatore tedesco alla giurisprudenza Rüffert attuata mediante trasfusione in legge delle norme sui minimi salariali negli appalti pubblici.

 

Infine nella causa RegioPost GmbH & Co. KG si trattava del ricorso di una società tedesca avverso l’esclusione da un appalto pubblico di servizi postali indetto da una municipalità tedesca motivato dal rifiuto della società di applicare il salario minimo legale regionale previsto per gli appalti pubblici. La Corte, pur essendo in concreto la vicenda priva di elementi di transnazionalità, ha ravvisato la propria competenza in ragione della soglia europea del valore dell’appalto e ha ritenuto di poter verificare la legittimità della esclusione non solo in relazione alla legislazione europea in materia di appalti pubblici (in ragione del valore superiore alla soglia di rilevanza europea) ma anche in relazione a quella sul distacco transfrontaliero di lavoratori (in quanto imprese stabilite in altri stati membri potrebbero aver rinunciato alla partecipazione a causa dell’obbligo ad esse posto di impegnarsi a rispettare il salario minimo imposto dal bando). La Corte nella causa in esame ha stabilito la legittimità della esclusione della impresa ricorrente sia in relazione alla normativa sugli appalti pubblici (in quanto l’art. 26 della Direttiva n. 2004/18/CE consente di prevedere, evidentemente in relazione al solo settore degli appalti pubblici, condizioni particolari in merito all’esecuzione dell’appalto basate su considerazioni sociali) che in relazione a quella sul distacco transfrontaliero di lavoratori (in quanto la tariffa salariale, a differenza di quanto accade in Rüffert, non trova la propria fonte in un contratto collettivo di applicazione non generale bensì in una disposizione legislativa).

 

Prima di analizzare brevemente la compatibilità dell’art. 30 comma 4 del D.Lgs. n. 50/2016, va precisato che attualmente la Direttiva n. 2014/24/UE ha sostituito la Direttiva n. 2004/18/CE: la materia è ora disciplinata dall’art. 70 Direttiva n. 2014/24/UE (che ha sostituito l’art. 26 Direttiva n. 2004/18/CE), in cui viene meno il riferimento testuale alla necessaria compatibilità delle clausole sociali con il diritto europeo presente di cui al previgente art. 26; e dall’art. 18 (che prevede, tra l’altro, l’adozione di misure nazionali per garantire il rispetto degli obblighi applicabili in materia di diritto sociale e del lavoro stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, da contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali di cui all’allegato X).

 

Considerazioni in merito alla compatibilità della normativa nazionale rispetto al quadro europeo

 

In generale il quadro normativo e giurisprudenziale europeo non pare attualmente propizio alla possibilità di apporre clausole di costo del lavoro nell’ambito degli appalti pubblici italiani, e non solamente per ragioni connesse alla efficacia di diritto comune dei nostri contratti collettivi.

 

Infatti, per quanto riguarda i contratti pubblici la cui esecuzione è suscettibile di delocalizzazioni e quindi per quanto concerne alcune tipologie di servizi (come ad  esempio i call center) e le forniture, si pone la questione della legittimità della applicazione delle tariffe salariali nazionali alle imprese che forniscono il servizio delocalizzato da un altro stato membro poiché tali tariffe costituiscono ostacolo sproporzionato alla libera circolazione dei servizi, in considerazione del fatto che non tengono in considerazione le differenze di costo della vita tra stati membri.

Diversamente, per quanto concerne la esecuzione di contratti pubblici non suscettibili di delocalizzazione (come la totalità dei lavori pubblici e la gran parte dei servizi) la legittimità della clausola sociale di cui all’art. 30, comma 4 del D.Lgs. n. 50/2016 va risolta, in ultima analisi, alla luce della disciplina sul distacco transnazionale di lavoratori ed in particolare alla luce dell’art. 3.1 della Direttiva 96/71/CE, che prevede l’obbligo in capo all’impresa stabilità in un altro stato membro di applicare ai propri lavoratori distaccati le norme imperative di protezione minima in vigore nel paese ospite, tra cui le tariffe minime salariali, ma solo se fissate da disposizioni legislative o amministrative ovvero da contratti collettivi (con efficacia non limitata al solo settore degli appalti pubblici, secondo la giurisprudenza europea).

 

In buona sostanza occorre stabilire la natura della fonte di diritto dell’obbligo, contenuto nell’art. 30 comma 4 del D.Lgs. n. 50/2016, di applicazione del contratto collettivo leader: si tratta di una dichiarazione di applicazione generale di un contratto collettivo o di una disposizione legislativa che contiene un rinvio formale mobile ad un ordinamento intersindacale autonomo (pare da escludere il rinvio materiale, considerato il riconoscimento di una determinata contrattazione collettiva come fonte sulla produzione)?

 

Infatti, secondo l’orientamento espresso nella sentenza RegioPost GmbH & Co. KG, tariffe salariali minime fissate in un contratto collettivo applicabile al solo settore degli appalti pubblici costituiscono una misura di tutela del lavoro che non supera il test di adeguatezza, in quanto discriminante, nello stesso stato membro, tra lavoratori impiegati in un appalto pubblico e lavoratori impiegati in un appalto privato. Al contrario, laddove le tariffe salariali minime siano fissate da disposizioni di natura legislativa o amministrativa, tali disposizioni non costituiscono ostacolo ingiustificato alla libera circolazione dei servizi e sono legittime anche alla luce della disciplina europea dei contratti pubblici (anzi proprio in virtù della esistenza di una disciplina specifica) e della disciplina europea del distacco transnazionale di lavoratori, quand’anche le tariffe salariali siano applicabili al solo settore degli appalti pubblici.

 

Federico Gori

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro (*)

Università degli Studi di Bergamo

@FedericoGori10

 

(*) Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione alla quale appartiene.

 

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