Lavoro intramurario e riforma dell’ordinamento penitenziario: a colloquio con il Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti

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Bollettino ADAPT 6 maggio 2019, n. 17

 

Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private dalla libertà personale è un organo collegiale di nomina presidenziale. Diversi sono i ruoli affidati all’ente che oltre a fungere da autorità nazionale di prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene, crudeli inumani o degradanti- è deputato al monitoraggio, grazie agli ampi poteri di accesso consentiti, dei luoghi di privazione della libertà (tra cui carceri, luoghi di polizia, centri per gli immigrati, REMS ecc.).

Abbiamo incontrato il Garante, nelle persone del Presidente prof. Mauro Palma, e del membro del consesso dott.ssa Daniela de Robert, per approfondire diverse tematiche afferenti al lavoro intramurario e capire come la novella del 2018 dell’ordinamento penitenziario abbia inciso sul lavoro del detenuto. Di seguito i punti trattati:

 

Vi è una incidenza diretta del lavoro intramurario sul tasso di recidiva?

 

Sì, si ha incidenza diretta del tasso di recidiva. Più in generale è significativo ai fini della recidiva il tempo che si è impegnato in qualcosa di proficuo come il lavoro, lo studio o l’esperienza teatrale. Assai deleteria nella nostra società è l’idea che in carcere si stia tutto il giorno all’interno di una camera, che poi è considerevole che si chiami “camera di pernottamento”, e che quello sia il mondo del detenuto mentre tutte le altre attività -come il lavoro e l’istruzione- rientrino nella sfera dell’intrattenimento.
Il lavoro intramurario incide positivamente sul tasso di recidiva perché è un’attività quotidiana che non da un tempo morto e incide maggiormente qualora sia esportabile nel fine pena.
In particolare si parla del lavoro qualificante: si pensi ad un detenuto che non è neanche mai andata a scuola, educare al lavoro significa conoscere l’esistenza di regole da rispettare.

 

Il lavoro intramurario può condurre alla defezione del sodalizio criminale?

 

Rispetto a questo tema dobbiamo distinguere due realtà: da una parte possiamo definire il “microsodalizio criminale” e dall’altra quella che si può immaginare come una  “grossa organizzazione criminale”, riferendoci in modo particolare ai vertici. Mentre nella prima casistica il lavoro intramurario ha sicuramente un apporto di collante nei confronti del legame con lo Stato, nel secondo caso occorrono strumenti diversi per giungere al detto risultato.
Ulteriore elemento che pone un distinguo è poi l’età nel senso che molti giovani reclutati dalla criminalità vengono assoldati proprio a fronte di un lavoro e in quei casi, allora, lavorare in carcere significa aver ricevuto una seconda possibilità e averla ricevuta dallo Stato.

 

Dagli ultimi dati diffusi dal Ministero di Grazia e Giustizia emerge che l’87,22% dei detenuti impiegati in attività lavorative è alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria svolgendo servizi d’istituto e spesso descritti come avvezzi a turnazioni esagerate o part-time. Non crede che sarebbe doveroso riflettere quantomeno sul tema se tali impieghi creino davvero il convincimento di un lavoro quale riscatto?

 

Occorre intanto declinare tale dato numerico con la realtà: il dato che emerge dal citato monitoraggio delle attività è sicuramente gonfiato nel senso che spesso l’attività lavorativa, per consentire a più persone di avere una remunerazione (e ciò anche in prospettiva di consentire al detenuto di poter pagare la cd. “quota di mantenimento”), ha dei connotati enormemente flessibili e discontinui che sembrano descrivere solo un simulacro di attività lavorativa. Vi sono tuttavia dei settori che rappresentano occasioni di occupazione più stabile e continuativa per il detenuto, e in tale senso sicuramente ingenerano il convincimento di un lavoro quale riscatto. Questi sono i lavori di cucina e di manutenzione ordinaria dei fabbricati (cd. MOF).

 

Dal 2016 continua a registrarsi una costante crescita della popolazione carceraria: ad oggi contiamo circa 2500 unità in più, rispetto a un trend che fino al 2010 era in costante diminuzione. Cercando delle spiegazioni a tale dato ho sentito spesso parlare di “populismo penale”. Ritiene che sia questa la reale causa? Inoltre, delle scelte di populismo penale (es. inasprimento delle pene) non ritiene che rischino di alimentare le distanze -già ben nutrite- che ci sono tra la società civile e il concetto di rieducazione del detenuto, che trova ampia espressione nella pratica del lavoro intramurario?

 

Che scelte di “populismo penale” siano oggi invase, e anche con ottica internazionalistica, lo si può notare già dalla sostituzione del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America Anthony Kennedy, momento da cui si è instaurato un certo tipo di orientamento che riscontriamo ancora nell’immagine che ci fornisce Orban quando fa uscire i detenuti di carcere per far costruire dei muri di confine con il filo spinato. “Populismo penale” sono, poi, anche e soprattutto frasi come “marcire in carcere” o “gettare la chiave” che nulla hanno a che condividere con il dettame costituzionale. L’interrogativo da porci riguarda la volontà della classe dirigente di voler sacrificare tale spirito all’altare del consenso politico.

 

Alla luce del combinato di vari fattori recenti tra cui: l’adeguamento degli importi -come descritto dall’art. 22 o.p.- ad una remunerazione fissata nei due terzi del trattamento economico dei contratti collettivi; dello stanziamento per il triennio 2017-2020 della somma di 120 milioni di euro (con lo scopo di porre fine a una costante serie di ricorsi da cui risultavano pesanti aggravi per l’Amministrazione); dal tenore letterale del nuovo art. 20 o.p. (che rilancia  la capacità dell’amministrazione penitenziaria di organizzare e gestire da sé lavorazioni), sembrerebbe potersi dire che le possibilità del lavoro penitenziario siano aumentate. Si sente di confermare tale affermazione?

 

Non è stato così. La conseguenza dei citati interventi è stato l’irrobustimento del “frame”, della cornice della questione, di fatto non abbiamo visto alcun meccanismo di cambiamento degno di nota.
La vera riforma, in tale campo, riguarda più l’approccio che si ha con la materia e visto il tenore con cui è stato supportato il novellato precetto concernente il lavoro di pubblica utilità non riteniamo possibile affermare che le possibilità del lavoro penitenziario siano concretamente aumentate.

 

A proposito della riforma del 2018, che ha sganciato la concezione del lavoro all’esterno da quella del lavoro di pubblica utilità, l’art. 20-ter dell’o.p. non prevede per quest’ultimo degli sconti di pena a titolo di liberazione anticipata, com’era invece stato proposto dalla commissione Giostra. Lei crede che questa mancata previsione rappresenti un ulteriore ostacolo al convincimento che l’impiego assegnato al detenuto sia un’ipotesi di riscatto offerta e promossa dall’ordinamento in attuazione del fine rieducativo della pena?

 

Penso che in questo tema c’è stato un gravissimo arretramento di categorie concettuali, e ciò per cinque ordini di ragioni:

 

  • primo arretramento: si è sancito il dover fare qualcosa che dia risposta più alla fame vendicativa che c’è all’esterno che non al detenuto;
  • secondo arretramento: si è sviati dalla discussione se il sinallagma “lavoro-salario” potesse diventare “lavoro-libertà” ed in tal senso il secondo arretramento è visivo: queste persone che lavorano fuori sono scortate dalla polizia armata e questo è un impatto visivo talmente forte che rende quel lavoro non più uno strumento trattamentale, ma l’idea che il luogo del supplizio deve diventare tangibile alla società tutta;
  • terzo arretramento: riferendoci a fatti non troppo remoti, la scelta comunicativa di tali propositi. Il nome, un nome come “Mi riscatto per” non tiene conto del fatto che la pena è essa stessa il contenuto sanzionatorio e non deve dare niente per riscattare. È un messaggio errato;
  • quarto arretramento: il fatto che non si è pagati. Si cerca, benignamente, di andare incontro alle varie situazioni del singolo detenuto chiedendo alla Cassa delle ammende di prevedere un sussidio discrezionale: quindi l’attività lavorativa viene misurata non in funzione della forza lavoro e del tempo impiegati ma del pregresso bisogno della persona, cosa incalcolabile;
  • quinto arretramento: l’elemento consensuale a cui tutto ciò vuole dare risposta.

 

Noi siamo, per tali motivi, piuttosto contrariati e anche straniti dal fatto che il garante comunale di Roma abbia promosso un progetto quale “Mi riscatto per Roma”, espressione della visione retributiva della pena per come la si è voluta espungere dal nostro ordinamento.

 

Ho letto la Relazione da lei presentata al Parlamento, e mi ha incuriosito leggere le sue riflessioni sezionate per luogo. In particolare ha destato la mia attenzione la sua disamina sull’intercinta. Può approfondirmi questo punto?

 

La maggior parte degli Istituti Penitenziari presentano la stessa mappa: vi è un’area dedicata agli uffici passata la quale vi è un primo muro. Il muro attorno è il muro perimetrale del carcere dentro cui vi è l’area detentiva e questo spazio che se ne determina viene detto “intercinta”. Nei fatti il lavoro svolto nell’intercinta viene fatto passare come lavoro esterno ex art. 21 o.p. e quello che era destinato ad essere un elemento aggiuntivo per il lavoro esterno sta diventando una modalità. Un paradosso.

 

Parliamo di reinserimento lavorativo espiata la pena: con il novello art. 25-ter o.p. s’intende facilitare i rapporti tra detenuto e erogazione di “servizi e misure di politica attiva del lavoro”. Ciò è sufficiente o si sarebbe dovuto andare più a fondo, magari ipotizzando un vero e proprio canale d’inserimento lavorativo specie per l’imminente dopo pena?

 

Ampliamo il discorso: abbiamo sostenuto più volte che le misure alternative siano un ponte verso l’esterno e affianco a ciò abbiamo sempre detto che dovrebbe essere previsto un accompagnamento per l’imminente dopo pena. Il cd. “probation system” non si occupa solo dell’ultima fase della detenzione ma anche della primissima fase dell’inserimento. Anche se non vogliamo costruire un canale privilegiato, quanto meno un accompagnamento di opportunità, dei luoghi in cui è trasparente il percorso svolto dal detenuto sarebbe importante. A fronte di ciò è triste osservare come ormai in Italia il sistema si disinteressi del detenuto dal momento in cui esce dal portone: a volte le persone non hanno i soldi per prendere l’autobus.

 

Ulteriore elemento rieducativo di cui parlano le norme è l’istruzione. Concretamente, gli istituti penitenziari, riescono a far fronte alle richieste? Sono adeguatamente forniti?

 

Qui dobbiamo distinguere tutti i livelli di istruzione facendo una premessa.
La premessa è che si parte da situazioni diverse sia con riguardo al soggetto che all’istituto. Andando a grandi linee c’è da dire che i Centri per la Prima Alfabetizzazione (CPA) funzionano bene considerando che il soggetto dell’istruzione è un adulto in condizione di disagio, una particolarissima condizione di disagio che è quella della privazione della libertà. Contraltare di tale buon funzionamento è che la popolazione detenuta si sta molto modificando tenuto conto che vi sono detenuti dentro per pene molto brevi: coloro che sono in carcere e devono scontare una pena inferiore ad un anno sono all’incirca 1800: in una pena di 4 mesi (ad esempio) non è possibile costruire un percorso significante.
L’istruzione secondaria continua a proporre un modello che non considera un adulto in condizione di disagio ma uno studente che si è interessato in un secondo momento alla sua formazione e si ripropone con le materie scolastiche.
Terzo grumo sono i poli universitari, una realtà che funziona bene ma che riguarda un’élite. L’idea, per gli accademici, di compiere la cd. “terza missione” tramite un delegato del rettore, si sta rivelando un’idea vincente. Una delle facoltà più gettonate è Giurisprudenza, ma a Prato vi è il caso di un detenuto studente di Medicina.
Ulteriore settore è la formazione professionale in cui, al contrario del dato reale, bisognerebbe investire sempre di più perché la formazione professionale, anche data la composizione sociale del carcere, potrebbe essere quella che realtà che permetta di uscire con un certificato che consente di trovare lavoro

 

Dal territorio, concretamente, quali sono le prospettive e/o le problematiche portate alla sua attenzione dai Garanti Regionali? Nota particolari differenze nelle pratiche di lavoro inframurario tra gli istituti del Nord e del Sud Italia?

 

Occorre tener sempre presente che il Garante Nazionale è un organo di vigilanza e controllo, poi anche di semplificazione e promozione. I Garanti Regionali sono organi di promozione.
I Garanti regionali sono nati con varie diverse modalità quindi dipende molto dal contesto. Sebbene questi non siano dirette promanazioni del Garante Nazionale, in quanto non sono titolari delle medesime impellenze, possiamo affermare di avere un rapporto da un lato positivo e dall’altro negativo.
Una difficoltà che mi sento di sottolineare è che spesso molti Garanti Regionali finiscono con il ricoprire una funzione quasi paragonabile a quella dell’assessore e ciò è molto deresponsabilizzante per la Regione, come se l’assessore rifili al garante regionale.
Ultimamente mi ha colpito un passaggio: il Garante Regionale della Sicilia ha affermato che questo ufficio “impone”, e mi sembra di cogliere un certo stupore. Io rivendico ciò, il coordinamento appartiene al novero delle impellenze del Garante Nazionale.

 

Come valuta il ruolo di imprese e cooperative sociali nell’organizzazione e gestione del lavoro intramurario? Lasciando da parte l’opportunità di un rafforzamento delle risorse per finanziare gli sgravi ex Legge Smuraglia, quali soluzioni e prassi potrebbero essere adottate dall’Amministrazione penitenziaria per incrementare gli investimenti dei datori di lavoro privati nelle lavorazioni intramurarie?  

 

In termini medi lo valuto molto positivamente, guardo con orrore che in questo paese siamo finiti con il dare al termine “cooperativa” un’accezione negativa. Certo, tale ruolo va incrementato, stimolato e controllato.
La cooperativa 29 Giugno si chiamava così per un convegno, in cui fu presente Giuliano Vassalli, sull’introduzione di questo modello che aiutava anche nella fase interno-esterno, il modello Smuraglia. Il modello del 29 Giugno, lo rivendico.
Certo, non può essere l’unico modello e penso che i tre modelli debbano interagire fra di loro. Va sottolineato come per le imprese sia difficoltoso investire non soltanto dal punto di vista fiscale ma dal punto di vista dell’organizzazione a lavorare dentro un Istituto Penitenziario (vi è ad es. il problema di portare il materiale dentro). Il lavoro cioè va accudito e preservato e se lo si fa diventare l’ultimo delle esigenze della vita in carcere è chiaro che l’impresa non investirà.

 

Giovanni Fatuzzo

ADAPT Junior Fellow

@G_Fatuzzo

 

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