Lavoro autonomo professionale e strumenti di aggregazione: i limiti della legge n. 81/2017 e gli strumenti alternativi per “fare rete”

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Sono molti i dibattiti che si stanno aprendo nel mondo delle professioni intellettuali attorno al tema degli strumenti aggregativi per le professioni previsti dalla legge n. 81/2017. La normativa che ha introdotto una serie di tutele per il lavoro autonomo (tale da essere riconosciuta dalla cronaca di settore come “Statuto del lavoro autonomo”) all’art. 12, comma 3 dispone che con la finalità di «consentire la partecipazione ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati, è riconosciuta ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, la possibilità: a) di costituire reti di esercenti la professione e consentire agli stessi di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste, di cui all’articolo 3, commi 4-ter e seguenti, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, con accesso alle relative provvidenze in materia; b) di costituire consorzi stabili professionali; c) di costituire associazioni temporanee professionali, secondo la disciplina prevista dall’articolo 48 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, in quanto compatibile». Nel campo di applicazione dell’art. 12, comma 3, è ricompreso il lavoro autonomo così come identificato dall’art. 1 della legge n. 81/2017, ossia il lavoro autonomo di cui agli artt. 2222 e 2229 cod. civ. e quello non ordinistico ai sensi della legge n. 4/2013. Sono esclusi, quindi, l’imprenditore ed il piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 cod. civ. La disposizione, a primo impatto, sembra voler estendere anche ai professionisti la possibilità di “fare rete” e quindi, attraverso un contratto, perseguire degli interessi comuni nel mercato. Tuttavia, ad una più attenta analisi della norma che ha codificato il contratto di rete (art. 3, comma 4-ter del decreto legge n. 5/2009) e della disposizione che ne ha esteso gli effetti anche al lavoro autonomo professionale (art. 12, comma 3 della legge n. 81/2017) possiamo notare delle differenze strutturali di non poco rilievo. Differenze che ne limitano l’utilizzo e quindi la portata innovativa.

 

 

La causa e l’oggetto del contratto di rete

 

L’art. 3, comma 4-ter del decreto legge n. 5/2009 prevede che con «il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa». In questa prima parte della disposizione, possiamo notare come la norma individui la causa e allo stesso tempo l’oggetto del contratto di rete. Sotto il profilo della causa, essa è rappresentata senza dubbio dall’interesse imprenditoriale ad accrescere la capacità innovativa delle imprese e la relativa competitività, perseguita attraverso la collaborazione tra più imprenditori ([1]). Per quanto concerne l’oggetto del contratto, invece, la norma ne elenca diversi, concorrenti o alternativi tra loro: scambio di informazioni, di prestazioni di diversa natura, l’esercizio comune di attività imprenditoriali. Del tutto diverso è il tenore letterale dell’art. 12, comma 3 della legge n. 81/2017 che ravvisa la causa del contratto di rete tra professionisti nella «partecipazione ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati» mentre sembra non occuparsi dell’oggetto, che in ogni caso deve essere conforme alle disposizioni generali in materia contrattuale (cfr. artt. 1325 e 1346 cod. civ.). Va fatto notare, inoltre, come le previsioni contenute nel decreto legge del 2009 descrivano la regolazione di un assetto di interessi tramite un accordo commerciale tra soggetti qualificati con precisi requisiti. Tuttavia, queste non si preoccupano di individuare la disciplina applicabile nel caso in cui le parti non rispettino le prescrizioni di legge, aspetto che pone gli operatori in uno stato di incertezza in ordine alla adozione di tale tipologia contrattuale.

 

 

Le due tipologie di contratto di rete nella legge n. 81/2017

 

L’art. 12, comma 3, sembra distinguere due tipologie di contratti di rete. Una prima riguarda la possibilità di «costituire reti di esercenti la professione», quindi un contratto di rete tra più professionisti per l’esercizio in comune della stessa o di diverse professioni. Un esempio potrebbe essere l’interesse di un avvocato, di un commercialista e di un consulente del lavoro a sottoscrivere questa tipologia di contratto per poter fornire un servizio integrato alle imprese clienti. Una seconda tipologia, invece, riguarda la c.d. “rete mista” laddove l’art. 12, comma 3 riconosce nella seconda parte della disposizione la possibilità per il professionista «di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste, di cui all’articolo 3, commi 4-ter e seguenti, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33». Ciò sta a significare che il professionista potrà costituire una rete con un imprenditore attraverso un contratto che risponda alla causa (innovazione e accrescimento della competitività) e all’oggetto (scambio di informazioni, di prestazioni ed esercizio comune dell’attività) di cui all’art. 3, comma 4-ter del decreto legge n. 5/2009. Entrambe le tipologie, tuttavia, presentano dei profili di criticità.

 

 

Il contratto di rete c.d. “ordinario”

 

Per quanto concerne il contratto di rete tra professionisti di cui all’art. 12, comma 3, occorre evidenziare che l’art. 3, comma 4-quater prevede che il contratto in questione «è soggetto a iscrizione nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante e l’efficacia del contratto inizia a decorrere da quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari». Sennonché, l’obbligatorietà dell’iscrizione del contratto nel registro dove è iscritto il retista, nel mondo delle libere professioni è sostanzialmente impedita dal fatto che per queste non è previsto l’obbligo di iscrizione al registro delle imprese. Tutto ciò si tradurrebbe nell’impossibilità per i professionisti di stipulare un contratto di rete tra loro ai sensi dell’art. 12, comma 3 della legge n. 81/2017 e art. 3, commi 4-ter e 4-quater del decreto legge n. 5/2009. Di tale parere è anche il Ministero dello Sviluppo Economico, che ha avuto modo di precisare come «nel caso di contratto di rete “ordinario” (privo cioè della soggettività giuridica), la pubblicità [è] assolta tramite iscrizione a margine di ciascuna posizione nel registro delle imprese di ogni imprenditore, del contratto di rete. Nell’ipotesi contemplata dalla norma in esame, risulta impossibile iscrivere il contratto di rete, sulla posizione di un soggetto (“che svolge attività professionale”) non iscritto al registro delle imprese» ([2]). Quindi, salvo il caso in cui i professionisti che vogliano stipulare un contratto di rete svolgano già la loro attività professionale attraverso una società tra professionisti (STP) per la quale è obbligatoria l’iscrizione al registro delle imprese (in questo caso sarebbe possibile stipulare un contratto di rete “ordinario”), non è possibile per i singoli professionisti accedere a questa tipologia contrattuale.

 

 

Il contratto di rete c.d. “misto”

 

Alla luce di quanto detto, resta per il professionista la sola possibilità di mettersi in rete con uno o più imprenditori e quindi costituire una c.d. “rete mista”, come previsto dall’art. 12, comma 3, nella seconda parte. A tal proposito, infatti, il Ministero dello Sviluppo Economico osserva che «in questa fase, a legislazione invariata, pertanto, appare possibile – a fini pubblicitari – la sola creazione di contratti di rete misti (imprenditoriali – “professionali”), dotati di soggettività giuridica, come descritti al comma 4-quater» dell’art. 3 del decreto legge n. 5/2009, poiché «detta fattispecie, infatti, prevedendo (proprio perché dotata di autonoma soggettività) l’iscrizione autonoma della rete al registro delle imprese, non già sulla posizione dei singoli imprenditori “retisti”, consentirebbe la possibilità di costituire e dare pubblicità alle reti miste» ([3]). Questa opzione, seppure possibile da un punto di vista legale, risulta da un punto di vista organizzativo del tutto ardua per il professionista giacché si troverebbe a partecipare ad un progetto imprenditoriale dove si obbliga in solido a fronteggiare rischi e responsabilità con un patrimonio aziendale che non è tanto ampio e strutturato quanto quello dell’impresa. Non bisogna, infatti, dimenticare che nel contratto di rete può innestarsi un regime di codatorialità, che risponde agli effetti derivanti dalla struttura dell’obbligazione solidale di cui all’art. 1294 cod. civ. Ciò significa che il professionista (ossia, un micro-imprenditore) si farà carico dell’obbligazione retributiva e di sicurezza dei lavoratori impiegati nella rete, al pari dell’imprenditore, che ha mezzi ben diversi e più soldi per fronteggiare i medesimi rischi. È bene ricordare che la solidarietà lavoristica resta valida per tutti i retisti, solidarietà che il contratto di rete non può limitare a vantaggio di alcuni dei partecipanti alla rete.

 

 

Insufficienza normativa e sperimentazioni “improprie” di rete

 

Sin dall’entrata in vigore del decreto legge n. 5/2009, il mondo delle libere professioni aveva contestato l’assenza nella previsione di legge di strumenti che favorissero anche l’aggregazione tra professionisti. Tuttavia, in questi anni, nell’esperienza vi sono stati degli sviluppi organizzativi della “rete” che non rispondono in termini giuridici al tipo contrattuale codificato dal legislatore ma si sono imposti attraverso altri schemi negoziali diversi comunque dai casi delle società tra professionisti, dei consorzi stabili professionali e delle associazioni temporanee professionali (menzionati anche dall’art. 12 comma 3, lettere b) e c) della legge n. 81/2017). Un esempio di “rete” finalizzata alla tutela della professione è la Rete ANDI ([4]), una Fondazione che fa capo all’ANDI, il sindacato dei dentisti italiani. Scopo di questa “rete” (impropria), è quello di tutelare la professione dalla pressione concorrenziale proveniente dal diffondersi delle cliniche odontoiatriche low cost e dal crescente fenomeno della sanità integrativa prevista dalla contrattazione collettiva di settore. Il professionista che si associa alla rete deve garantire una carta dei servizi, l’utilizzo di determinati macchinari e garantire standard qualitativi del servizio, nonché sottoporsi a dei controlli da parte dei responsabili della rete. Questa forma di aggregazione professionale, che rappresenta una “rete” tra soggetti impropria, o meglio non rispondente al tipo legale di cui all’art. 12, comma 3 della legge n. 81/2017, mostra come la necessità dei professionisti di associarsi sul mercato per affrontare in ottica di gruppo le sfide derivanti dalla concorrenza sia impellente rispetto all’esigenza di fornire uno strumento giuridico ad hoc. In altre parole, sembra che la necessità di “fare rete” sorga a prescindere dall’esistenza nell’ordinamento di un tipo contrattuale che consenta la costruzione della rete. Peraltro, l’esperienza ANDI offre lo spunto per approfondire ulteriormente un dibattito, di recente aperto dalla dottrina giuslavoristica, sulla natura sindacale o meno dell’interesse che la “rete” intende tutelare. In questo caso, infatti, la “rete” tende a tutelare il professionista micro-imprenditore che non ha una controparte ben identificata e stabile verso la quale indirizzare le proprie rivendicazioni (il datore di lavoro). Si tratta piuttosto di relazioni che sono rilevanti sul piano contrattuale-commerciale. In altre parole, la rete finisce per tutelare interessi che sono di carattere extra-sindacale e quindi riconducibili all’area della concorrenza commerciale sul mercato, sia pure nei limiti e nel rispetto della normativa antitrust ([5]).

 

A guardare bene, analoghe finalità di tutela del professionista non ordinista sono perseguite dalle associazioni che si costituiscono ai sensi dell’art. 2 della legge 14 gennaio 2013, n. 4, il cui fine è «valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza», e dalle forme di aggregazione di tali associazioni ai sensi del successivo articolo 3. La legge del 2013 prefigura un sistema di rappresentanza dei professionisti che prescinde dallo status giuridico e persegue obiettivi comuni di tutela nel mercato degli iscritti. Infatti, i professionisti che vi aderiscono possono svolgere la propria attività «in forma individuale, in forma associata, societaria, cooperativa o nella forma del lavoro dipendente» (comma 5 articolo 1). Al fine di rendere operativa tale tutela, la legge prevede specifici obblighi (informativi, deontologici, di trasparenza, ecc.) in capo alle suddette associazioni e che esse possano promuovere organismi di certificazione della conformità dell’attività alle norme tecniche UNI per i settori di competenza, ovviamente nel rispetto della normativa vigente, che prevede l’accreditamento e il rispetto dei principi di indipendenza, imparzialità e professionalità. Il professionista, quindi, può rivolgersi a tale organismo per ottenere una certificazione che attesti il possesso dei requisiti minimi standard individuati dalla norma tecnica di riferimento. Si tratta di una forma di rappresentanza che fa leva sulla valorizzazione delle competenze e della reputazione, un «processo di professionalizzazione atipico» proprio del lavoro autonomo professionale ([6]). Le associazioni che possiedono determinati requisiti, poi, possono iscriversi ad un apposito elenco presente nel sito del Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 2, comma 7 della legge n. 4/2013 ([7]).

 

La terziarizzazione dell’economia ha reso evidente, ora più che in passato, l’esigenza dei knowledge workers di mettere a fattore comune competenze tecniche e identità professionali per rispondere al meglio alle domande del mercato. Infatti, i committenti organizzano sempre più la propria attività per cicli, fasi e progetti, attingendo al mercato delle professionalità. Tale mercato è variegato e spesso contaminato da operatori che propongono servizi di scarsa qualità in grado di danneggiare l’immagine dei professionisti del settore o di portare ad una concorrenza al ribasso rispetto alle condizioni contrattuali. Per tale motivo, come si è detto, laddove non arriva la legge, sono spesso i professionisti ad auto-organizzarsi per fare rete. La legge n. 4/2013 ha fornito una prima cornice giuridica per l’inquadramento di tali fenomeni, sebbene limitatamente alle professioni c.d. non organizzate ([8]), mentre la legge n. 81/2017, con riferimento alle reti miste, ha messo a disposizione uno strumento che, però, presenta i limiti di cui si è detto. In definitiva, è possibile ravvisare nell’agire collettivo da parte dei professionisti un interesse a vedere tutelati o adeguatamente valorizzati elementi quali la professionalità e la reputazione (anche nell’interesse degli utenti che a loro si rivolgono) di cui il legislatore e le parti sociali non potranno non prendere atto nei prossimi anni.

 

Federica Capponi

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@FedericaCapponi

 

Giovanni Piglialarmi

Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo – ADAPT

Gio_Piglialarmi

 

[1] M. T. Carinici, Il concetto di datore di lavoro alla luce del sistema: la codatorialità e il rapporto con il divieto di interposizione, in M. T. Carinci (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, ed. Giuffrè, Milano, 2015, spec. 30 e ss.

[2] Cfr. Ministero dello Sviluppo Economico, circolare n. 3707/C – 2018, p. 2. Sul tema, il Ministero ha sempre adottato un orientamento restrittivo. Già con l’entrata in vigore del decreto legge n. 5/2009, il Ministero ha negato alle università, alle associazioni o.n.l.u.s. e alle associazioni che svolgevano anche (e non solo) attività imprenditoriale la possibilità di costituire o entrare a far parte di un contratto di rete poiché la norma di legge richiede la natura imprenditoriale dell’attività sia sotto il profilo formale che sostanziale, con l’aggiunta dell’evidenza formale dell’attività di impresa che si concretizza con l’iscrizione della stessa nel registro (cfr. Ministero dello Sviluppo Economico, parere 13 agosto 2014, prot. 0145656). Questo orientamento interpretativo restrittivo ha ricevuto non poche critiche, in particolare per avere escluso le università da tale possibilità, poiché non si è prestato attenzione al fatto che la rete mette in contatto un’eterogeneità di interessi ed obiettivi che potrebbero contribuire all’innovazione e alla competitività di chi vi partecipa (sul punto cfr. C. Camardi, Dalle reti di imprese al contratto di rete nella recente prospettiva legislativa, in Contratti, 2009, p. 931).

[3] Cfr. Ministero dello Sviluppo Economico, circolare n. 3707/C – 2018, p. 3. Già l’Agenzia delle Entrate con parere del  29 luglio 2015 affermava che «l’ampliamento della platea dei soggetti che possono sottoscrivere il contratto di rete, al fine di ricomprendere ad esempio i professionisti, necessita pertanto di apposite modifiche alla disciplina civilistica[…] inoltre, per garantire l’applicazione di incentivi fiscali ai professionisti riuniti in rete, sarebbe comunque necessario un ulteriore intervento normativo ad hoc, al fine di garantire una applicazione della misura agevolativa in linea con le modalità di determinazione del reddito di lavoro autonomo». Tali vuoti normativi non sembrano essere stati colmati dalla disposizione in commento di cui alla legge n. 81/2017.

[4] Cfr. www.reteandi.it.

[5] Sul punto v. P. Tomassetti, Il lavoro autonomo tra legge e contrattazione collettiva, in VTDL, 2018, n. 3, spec. p. 732 e ss.

[6] V. L. Casano, Il lavoro (autonomo) tra vecchie tutele e promozione della professionalità: i limiti della legge n. 81/2017 e l’attualità della legge n. 4/2013, in DRI, 2018, n. 2, spec. p. 439.

[7] V. anche Ministero dello Sviluppo Economico, circolare 3708/c-2018.

[8] In particolare, ai sensi dell’art. 1 comma 2 della L. n. 4/2013, si intende per professione non organizzata in ordini o collegi: «l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 del codice civile, delle professioni sanitarie e relative attività tipiche o riservate per legge e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative».

 

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