L’apprendistato come paradigma dei processi di innovazione: la lezione del passato

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Bollettino speciale ADAPT 11 dicembre 2019, n. 2

 

L’apprendistato può essere uno strumento utile a favorire la diffusione dell’innovazione, la produttività delle imprese, lo sviluppo del capitale umano e sociale? Stretto tra la morsa di vincoli culturali che ne fanno una seconda scelta rispetto ai “tradizionali” percorsi formativi, e il suo utilizzo prevalentemente orientato a raggiungere finalità occupazionali contrastando la disoccupazione giovanile, è difficile anche solo immaginare l’apprendistato come uno strumento in grado di raggiungere questi obiettivi. Concentrandosi quindi esclusivamente sul presente, e sulle logiche prevalenti che oggi sostanziano il ricorso a questo strumento, non sembra possibile trovare le risposte cercate. Può essere utile fare quindi un passo indietro, e provare a tornare alle origini dell’apprendistato.

 

L’apprendistato è stato per secoli uno strumento fondamentale per la formazione dei giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro, nonché per la regolazione del mercato e dei mestieri e, secondo uno studio di Joel Mokyr, David de la Croix, e Matthias Doepke, uno degli elementi determinanti lo sviluppo europeo, attraverso la diffusione dell’innovazione. È il caso dell’Europa pre-industriale, nella quale le corporazioni – ma anche altre istituzioni locali – prevedevano un necessario periodo di apprendistato per diventare “maestri” di un mestiere, nonché per favorire la formazione e la costruzione dell’identità sociale dei giovani. Al centro di questo sistema c’era la bottega artigiana, nella quale apprendisti e maestri lavoravano assieme, e dove i primi imparavano dai secondi grazie alla mimesis, in un intreccio indistinguibile di apprendimento ed esperienza. La conoscenza economicamente utile ad accompagnare i processi produttivi del tempo era per lo più tacita, non formalizzabile secondo i canoni moderni, ma necessariamente incarnata, trasmissibile solo attraverso il paziente lavoro dell’esperienza lavorativa condivisa. All’apprendistato faceva poi spesso seguito un periodo da “lavorante”, o “journeyman”, precedente al riconoscimento della qualifica di “maestro” e necessario per ottenerla, nel quale il giovane viaggiava, lavorando presso altri maestri, arricchendo quindi le sue conoscenze e condividendo le sue competenze, favorendo così, in un’economia nella quale il valore del capitale umano, a fronte di limitate innovazione tecnologiche, era assolutamente centrale, processi di diffusione della conoscenza economicamente utile e, conseguentemente, sviluppo economico e sociale.

 

L’apprendistato non aveva finalità prevalentemente “occupazionali”, o “formative”: era uno strumento per imparare un mestiere, cioè poter esercitare – con competenza – un lavoro e riconoscersi all’interno di una società a partire del proprio saper fare. E per raggiungere questi obiettivi, il ruolo di diversi soggetti locali e cittadini – come le corporazioni, appunto – era assolutamente fondamentale: l’apprendistato nel contesto pre-industriale era una realtà assolutamente flessibile, capace di rispondere a diverse esigenze attraverso la sua capacità adattativa, tant’è che lo troviamo, con caratteristiche comuni, diffuso in tutti i Paesi europei. L’esperienza della bottega artigiana è l’esperienza di una riconosciuta totalità di senso e scopo, un luogo nel quale soggetti diversi – apprendisti, lavoranti, maestri – collaborano per generare un’opera comune: il loro lavoro. Un’esperienza che, a partire dalla Rivoluzione Industriale, ha visto un’apparentemente inesorabile declino – tranne che in alcuni Paesi, come la Germania – a fronte di una separazione del lavoro che ha condotto allo scollamento tra apprendimento ed esperienza lavorativa, alla diffusione delle scuole pubbliche collegate alla nascita degli Stati moderni come luogo di trasmissione della conoscenza richiesta dai nuovi processi produttivi, ad un organizzazione del lavoro che recide quel sistema di relazioni tra lavoratori che si era creato nella bottega artigiana, attraverso la progressiva standardizzazione del fare lavorativo. Con il tempo, la relazione tra apprendistato e maestro diventa sempre di più assimilabile a quella tra dipendente e datore di lavoro, dove ad essere scambiato è solo il tempo del primo a fronte del salario offerto dal secondo, mettendo in secondo piano quell’idea di mestiere come apprendimento, esperienza, identità sociale che ha contraddistinto l’economia pre-industriale. Infine, al tramonto delle corporazioni e delle gilde non ha fatto seguito il sorgere di nuove istituzioni capaci di regolare l’apprendistato e i mestieri, un elemento che ha contribuito alle trasformazioni che hanno interessato l’istituto fino ad arrivare all’attuale modello.

 

Perché allora tornare a parlare, oggi, di apprendistato a partire da una ricostruzione delle sue origini nell’economia pre-industriale? Il dibattito sull’apprendistato come strumento per accompagnare le trasformazioni del mondo del lavoro, attraverso una formazione “sartoriale” e nata dal dialogo tra sistemi formativi e imprese, è assolutamente aperto in altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti. Non bisogna solamente guardare all’estero per trovare spunti per rivitalizzare questo dibattito anche in Italia: ADAPT ha lavorato e ancora lavora per far sì che l’apprendistato non sia inteso “solo” come un contratto, ma anche come uno strumento per favorire la creazione di reti locali per l’innovazione e il capitale umano, prestando attenzione alla sua dimensione progettuale e formativa, oltre che economica e giuridica. Attraverso numerosi contributi al dibattito pubblico, e alla concreta realizzazione di percorsi di apprendistato altamente innovativi, ADAPT in vent’anni di attività ha messo in pratica questa visione: basti pensare ai 141 apprendistati di alta formazione e ricerca realizzati attraverso la costruzione di parternship strategiche tra università e imprese, l’accompagnamento di istituzioni formative – come ad esempio l’istituto “Gadda” di Fornovo di Taro (PR) – alla realizzazione di percorsi di apprendistato efficaci e capaci di riscoprire il senso e il valore di questi strumenti come vettore per lo sviluppo e la crescita territoriale, la condivisione di strumenti e metodi attraverso la piattaforma collaborativa fareapprendistato.it, utile anche per rilanciare il dibattito sul valore dell’apprendistato nella quarta rivoluzione industriale. Provare a fare un passo indietro e approfondire le origini dell’apprendistato è quindi particolarmente interessante se – seguendo l’insegnamento di Marco Biagi, e valorizzando gli spunti offerti da Patrick Wallis della London School of Economics – si riconoscono le somiglianze tra i contesti produttivi altamente innovativi che caratterizzano l’economia contemporanea e la bottega artigiana pre-industriale, nella quale diversi lavoratori collaborano generando una massa critica capace di produrre ed innovare, lavorando assieme valorizzando le diverse competenze e mettendo in comune le proprie conoscenze, superando una logica rigidamente classificatoria per mansioni e compiti, arrivando invece alla centralità dei ruoli agiti e delle competenze personali.

 

D’altronde, nei laboratori delle imprese high tech come nelle botteghe artigiane della Venezia del seicento, la differenza la possono fare solo le persone, in termini di innovazione e produttività: persone non racchiudibili in declaratorie contrattuali, il cui lavoro non può essere standardizzato e per i quali non è il possesso di un contratto a tempo indeterminato a fare la differenza, ma la possibilità di lavorare a stretto contatto realizzando processi di ricerca e scoperta collaborativi, avendo costantemente la possibilità di imparare. Per contrastare la stagnante produttività ormai endemicamente collegata al mercato italiano è inoltre necessario ripensare i collegamenti e le relazioni che intercorrono tra sistemi formativi e mondo delle imprese, valorizzando percorsi – quali ad esempio quelli di apprendistato di terzo livello – capaci di costruire una “grammatica” comune tra questi due mondi, favorendo logiche di contaminazione reciproca a beneficio di entrambi, e favorendo l’accesso nel mondo del lavoro di giovani dotati di competenze, ma soprattutto di un metodo di apprendimento continuo, che ne garantisce l’occupabilità a lungo termine e li mette in condizione di essere protagonisti attivi dei processi di trasformazione del lavoro, offrendo alle imprese professionalità non solo corrispondenti ai loro fabbisogni, ma in grado di generare ulteriori logiche di crescita e sviluppo.

 

Per i motivi ora richiamati, il presente Bollettino Speciale vuole essere un primo spunto per favorire un dibattito a proposito del ruolo che l’apprendistato può giocare all’interno della quarta rivoluzione industriale, cercando di immaginarne il futuro a partire dalla riscoperta del suo passato.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

L’apprendistato come paradigma dei processi di innovazione: la lezione del passato
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