L’abuso del lavoro domestico

La sentenza del Tribunale di Milano 20 marzo 2017, n. 771, esamina un’ipotesi peculiare, nella quale è stata riscontrata la sussistenza di due distinti rapporti di lavoro – uno domestico e regolare, l’altro ordinario e “sommerso” – in riferimento alle medesime parti.

 

Per comprendere appieno la portata della pronuncia, appare utile una breve premessa sulla disciplina del lavoro domestico.

 

La specialità del lavoro domestico

Come il giudice milanese evidenzia nella pronuncia, il lavoro domestico costituisce un rapporto speciale, nell’ambito del tipo generale del lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.. La specialità deriva dalla diversità causale del rapporto svolto in tale ambito, essendo questo caratterizzato da prestazioni rese esclusivamente per il funzionamento della vita familiare (art. 1 della l. n. 339/1958).

 

La giurisprudenza ha riconosciuto la causa speciale del lavoro domestico, stabilendo che l’opera del prestatore è finalizzata all’andamento della vita familiare (Cass., 6824/2005; ead., 27578/2005, citate nella sentenza in commento). Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che il rapporto domestico si differenzia dall’ordinario rapporto di lavoro subordinato reso a favore di un’impresa e nel relativo contesto organizzativo, in quanto diretto solo al funzionamento della ristretta cerchia dei familiari del datore di lavoro (Sentenza n. 585/1987, menzionata dal giudice).

 

Pertanto, come affermato puntualmente dal Tribunale lombardo, le prestazioni di lavoro domestico sono funzionalizzate all’andamento della vita familiare, con conseguente esclusione dello svolgimento delle stesse al di fuori di tale contesto. Del resto, come pure osserva il giudice, in tal modo si spiega la disciplina derogatoria dettata dalla legge n. 339/58 e dagli artt. 2240 e ss. c. c..

 

Il caso giudiziale

Nel corso di un accertamento ispettivo di una Direzione territoriale del lavoro, era emerso lo svolgimento di prestazioni da parte di un lavoratore domestico, regolarmente assunto e occupato come tale, anche all’interno dei locali di una sartoria appartenente allo stesso datore di lavoro domestico.

 

Dalle verifiche era risultato che il prestatore, nell’ambito delle pattuite 20 ore settimanali, svolgesse la propria attività di pulizia e stiratura presso i locali aziendali quando vi era poco lavoro da effettuare in casa. L’organo accertatore riteneva che l’attività del lavoratore presso l’azienda del datore domestico costituisse distinto rapporto lavorativo, non regolare, giacché il contratto di lavoro domestico stipulato non consentiva di svolgere prestazioni al di fuori del contesto familiare. Ne conseguiva l’accertamento delle violazioni relative al lavoro nero per le giornate lavorate nel locale aziendale (art. 3, comma 3 del D.L. n. 12/2002).

 

Il datore di lavoro impugnava l’ordinanza che ingiungeva le sanzioni, ai sensi dell’art. 18 della legge 689/81, deducendo la regolare occupazione del lavoratore e la volontà di non occultare il rapporto di lavoro, comunicato alle amministrazioni competenti, anche se esclusivamente sotto forma di lavoro domestico.

 

Il giudice milanese rigetta il ricorso, in virtù delle seguenti argomentazioni. Innanzitutto, richiamando la disciplina del lavoro domestico sopra compendiata, anche come interpretata dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, il giudice ne evidenzia la particolare causa contrattuale, che determina una funzionalizzazione delle prestazioni lavorative all’andamento della vita familiare. Nel caso di specie, pertanto, le prestazioni del lavoratore rese nel contesto aziendale esulavano dal lavoro domestico non solo in termini di causa, ma anche in termini di luogo di espletamento dell’attività, che non era – soltanto – il domicilio del datore ma il locale dell’impresa facenti capo a costui. Infine, mutava anche la finalità del rapporto, non più volta alla vita familiare ma al motivo di lucro.

 

Tali osservazioni determinano il Tribunale milanese ad addivenire all’inedita conclusione secondo cui nella fattispecie il datore di lavoro ha dato luogo a due distinti rapporti di lavoro, uno domestico e l’altro ordinario in azienda. Ne deriva la conseguenza che egli avrebbe dovuto comunicare alla P.A. anche l’ulteriore rapporto lavorativo in azienda che, di fatto, si era venuto ad instaurare. Il non aver effettuato tale denuncia comporta necessariamente la ricorrenza delle violazioni amministrative previste per il lavoro sommerso. Invero, ragiona il giudicante, il rapporto domestico si rivela, nel caso specifico, uno strumento elusivo dei maggiori vincoli, in termini economici e normativi, che derivano dal rapporto di lavoro ordinario in azienda. Sicché, stabilisce il giudice richiamando il comma 4 dell’art. 3, del D.L. 12 cit., è ben ravvisabile l’interesse ad occultare il rapporto di lavoro presso l’impresa, attraverso l’uso strumentale del rapporto domestico. Circa la volontà di dissimulazione, il giudice compie un’interessante analisi dell’elemento soggettivo della condotta illecita, che si manifesta attraverso vari indici individuati dalla giurisprudenza. Tra questi, nella specie rileva lo scopo perseguito dall’agente, che è chiaramente riconoscibile, secondo il Tribunale, nell’elusione della più rigorosa disciplina del tipo generale del lavoro subordinato. Del resto, il giudicante osserva che rientra nelle comuni acquisizioni dell’uomo medio operante nel settore imprenditoriale avere la coscienza che un lavoratore domestico non può essere impiegato in attività d’impresa. Tutto ciò considerato, ad avviso del Tribunale, non vi sono ragioni per escludere l’applicabilità alla fattispecie della c.d. maxisanzione.

 

Peraltro, lo stesso giudicante ritiene sproporzionato l’importo sanzionatorio concretamente irrogato dall’Ispettorato e, di conseguenza, ne dispone la riduzione al minimo edittale in applicazione dei criteri dell’art. 11 della legge 689/81. In particolare, viene in evidenza la condotta collaborativa del trasgressore agli accertamenti, che, con le sue dichiarazioni confessorie, ha attenuato le conseguenze dell’illecito.

 

Osservazioni conclusive

La pronuncia del Tribunale lombardo presenta notevoli profili di interesse per la novità delle questioni trattate e per le argomentazioni delle soluzioni adottate.

 

Non risultano, infatti, precedenti giurisdizionali sull’affermazione della coesistenza di due distinti rapporti in capo alle medesime parti e sul conseguente obbligo di comunicare entrambi alle pubbliche amministrazioni competenti. La motivazione del giudice è particolarmente convincente in merito alla specialità del rapporto di lavoro domestico ed al suo possibile uso strumentale e simulato, giacché è noto che quest’ultimo, non essendo caratterizzato dagli stessi vincoli del rapporto subordinato ordinario – tra tutti il regime di libera recedibilità, ma anche la maggiore agibilità di gestione amministrativa ed i minori oneri contributivi – può offrire la “tentazione” di un suo utilizzo imprOprio. Una tale pronuncia costituisce certamente un disincentivo ed un monito a coloro che abbiano intenzione di abusare di tale figura di lavoro.

 

La decisione si apprezza, oltre che per la sua chiarezza argomentativa, per l’approfondimento di questioni non solo lavoristiche, ma anche proprie di diritto sanzionatorio, laddove il giudice ragiona sulla conformazione concreta dell’elemento soggettivo che induce a ritenere l’abuso del lavoro domestico, nonché sui criteri di applicazione delle sanzioni. Pienamente condivisibile risulta anche il passaggio della decisione che ritiene applicabile il minimo edittale in caso di dichiarazioni confessorie del datore di lavoro, che correttamente differenzia il comportamento dei soggetti che agevolano gli accertamenti da coloro che se ne disinteressano.

Si tratta, senza dubbio, di un precedente rilevante per le attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del lavoro.

 

Carmine Santoro

Funzionario Ispettorato Nazionale del lavoro (*)

Dottore di ricerca, Università degli Studi di Bergamo

ADAPT Professional Fellow

@carminesantoro

 

(*) Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

 

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