La tela di Penelope delle politiche attive in Italia

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Bollettino ADAPT 22 marzo 2021, n. 11

 

Una riforma organica delle politiche attive. È quanto ha annunciato Andrea Orlando, lo scorso 15 marzo, in audizione al Senato nella rituale relazione sulle linee programmatiche del Ministero del lavoro di particolare interesse anche in relazione alla stesura del Recovery Plan.

 

Una relazione elegante e ben strutturata, quella del neo Ministro del lavoro, dove le politiche attive sono intese – condivisibilmente – «in senso ampio» quale «parte integrante le politiche della formazione professionale, essenziali per anticipare il cambiamento e non subirlo». Quello che se mai stona, nel pieno di una crisi occupazionale già evidente e pronta a esplodere in termini violenti con la fine del blocco dei licenziamenti, è la promessa di una nuova riforma legislativa. L’ennesima, almeno sulla carta, da quanto cioè, con la legge quadro sulla formazione professionale del 1978, si è introdotto l’uso della espressione «politica attiva del lavoro».

 

Il Ministro non è entrato nel dettaglio delle misure e non era certo quella delle linee programmatiche la sede appropriata per avanzare proposte e indicare soluzioni operative. Accanto a un generico rinvio a quanto in materia già contemplato dalla proposta di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvata dal precedente Consiglio dei Ministri lo scorso il 12 gennaio 2021, significativo è stato indubbiamente il richiamo al  Fondo Nuove Competenze, che pure qualche problema lo ha manifestato nella sua fase di implementazione (vedi S. Malandrini, Fondo Nuove competenze. Qualche riflessione critica riferita all’attuale periodo emergenziale, Bollettino ADAPT, 15 marzo 2021, n. 10), e alla misura di Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori di cui invero ancora si sa poco (vedi G. Machì, Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori: una nuova politica attiva nazionale, Bollettino ADAPT, 15 marzo 2021, n. 10). Due sono però le indicazioni che aiutano a comprendere la linea che probabilmente sarà seguita dalla azione di governo: il «rafforzamento dei centri per l’impiego», realizzando quell’ampliamento e riqualificazione degli organici «che non ha ancora trovato attuazione», da un lato; la «revisione del sistema della governance del sistema» che passa attraverso un non facile compromesso in sede di conferenza unificata Stato  Regioni (ricordiamo, al riguardo, la fallimentare esperienza dei navigator, progettata in una precisa direzione di intervento per poi mutare di funzione e contenuto professionale all’esito delle opposizioni delle Regioni che hanno una notevole voce in capitolo sulla materia delle politiche attive).

 

Non è questa la sede per ritornare sulle caratteristiche di struttura di un efficiente «modello di organizzazione e disciplina del mercato del lavoro», in un contesto culturale come il nostro ancora intrappolato dalla sterile contrapposizione tra centri pubblici per l’impiego e operatori privati, autorizzati e accreditati, che ancora oggi sono visti con sospetto e sufficienza da molti decisori politici a livello centrale come al livello regionale. E tuttavia dovrebbero essere noti a tutti, in primis alle strutture del Ministero del lavoro, i templi biblici di implementazione di riforme strutturali e organiche in materia che, nel passaggio dal disegno alla implementazione (che impone l’attuazione per via normativa anche a livello regionale), impiegano anni per entrare a regime e spesso con risultati modesti. Questo in ragione del fatto che, quale che sia il modello adottato, resta poi il nodo, non secondario, delle competenze e delle professionalità degli operatori chiamati oggi non più a collocare, in termini burocratici e amministrativi, da posto a posto, ma ad accompagnare le persone nelle complesse transizioni che caratterizzano i moderni mercato del lavoro (vedi L. Casano, Le transizioni occupazionali nella nuova geografia del lavoro: dieci domande di ricerca, Il Sole24 Ore – Nòva, 23 febbraio 2017). Certo, una riflessione su ANPAL avrebbe sicuramente senso, ma questo solo a condizione di non soffermarsi sui suoi attuali limiti (imputati dalla politica alle qualità professionali del suo attuale Presidente) e sui difetti di progettazione (che davano per scontata la riforma costituzionale avanzata dal Governo Renzi volta alla centralizzazione delle politiche attive). Il punto, al riguardo, resta sempre quello della assenza della accettazione di una vera logica di sussidiarietà tanto orizzontale che verticale e anche della capacità degli attori del sistema di relazioni industriali di appropriarsi fino in fondo dei temi della formazione e della gestione attiva del mercato del lavoro.

 

Ai fini del presente ragionamento è piuttosto utile sottolineare, in termini molto pragmatici e operativi, che le politiche attive servono oggi. Ragione per cui sarebbe più utile una riflessione e uno sforzo organizzativo su come far funzionare l’attuale modello, piaccia o non piaccia la sua configurazione, coinvolgendo attivamente chi, come gli operatori privati e l’infrastruttura dei fondi interprofessionali, può fornire un contributo concreto in materia. Del resto parliamo di politiche e di governo del mercato del lavoro che è cosa assai diversa dal fare una legge che sarà poi operativa, se tutto va bene, non prima dei prossimi quattro o cinque anni.

 

Giorgio Impellizzieri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@giorgioimpe

 

Michele Tiraboschi

Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@MicheTiraboschi

 

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